Dall'agosto 1480 l'Università Gallipolitana, preoccupata dell'eccidio
idruntino e delle frequenti scorrerie nemiche lungo le sue coste, aveva
tempestato di dispacci la Corona di Casa Aragona. Consapevole di non
poter contare su aiuti esterni, con reiterate petizioni supplicava
maggiori garanzie difensive, invitando il re a provvedere la fortezza
di artiglieria consolidando mura, castello e baluardi. La città
demaniale, libera e franca, senza baroni né feudatari, si trovava
sguarnita di mezzi, armamenti e uomini esperti, volendo dar credito
alle cronache locali e venete, per la cui bibliografia si rinvia al mio
recente saggio "L'epopea di Gallipoli nell'assedio veneziano"
(Gallipoli, 2001), anche per offrire un ulteriore contributo utile, se
mai, a chiarire o approfondire quanto, in merito alla nota vicenda
Gallipoli-Venezia, è stato pubblicato nell'ultimo numero di "Anxa
News".
Nel 1482 il Senato veneto, mentre allestiva un'Armata "per ferire nella
Puglia", dichiarò guerra al duca di Ferrara, Ercole d'Este, col quale
si allearono re Ferdinando I e papa Sisto IV, ancorché fosse Venezia
l'unico baluardo contro i Turchi, stante il disinteresse dei principi
italiani. Mutavano scenari politici ed equilibri diplomatici, ormai
compromessi essendo i rapporti di Napoli con la Serenissima e con
Maometto II. La Repubblica veneta governava l'alto Adriatico, mirando
ai porti marchigiani e al Mediterraneo orientale.
Con le sue galee dominava gli empori di Morèa, Corfù, Creta, Cipro e
intendeva ripristinare il controllo sull'Adriatico con la pressione
sulle coste romagnole e con l'attacco all'integrità del Regno
napoletano. Nel 1484 era una potenza in espansione, ricca e rispettata,
attratta, per vitali interessi commerciali, dalla Puglia, ponte
logistico con la costa balcanica e le piazze orientali. Intratteneva
intensi rapporti mercantili persino con Gallipoli per il commercio
dell'olio lampante e industriale, che da tutto il Salento confluiva nel
suo porto. Intanto la feudalità territoriale, che controllava gran
parte della regione, non si sentiva corrisposta né soddisfatta
adeguatamente del ruolo e del rapporto col potere centrale, non godendo
di favorevoli condizioni e facili privilegi da parte della Corona. I
baroni preferirono così mostrarsi indifferenti e inerti dinanzi agli
eventi e, senza parteggiare col proprio re né con San Marco, si
mantennero assenti e neutrali, prima di macchiarsi di fellonia.
In un simile scacchiere politico-militare Venezia aveva l'obbligo di
mostrarsi determinata ad indurre a trattative il re di Napoli, non
senza garantirsi il mercato del basso Adriatico e dello Ionio. Nel mese
di marzo, per delibera del Senato, il Capitano Generale di mare Giacomo
Marcello, coadiuvato dall'Ammiraglio in seconda Domenico Malipiero,
fatte razzie di vettovaglie e cereali nei porti pugliesi adriatici,
radunò la flotta a Corfù. Avendo avuto mandato di "punzecchiare le
coste salentine", puntò, anche per ragioni politiche, sull'indifesa e
isolata città ionica abitata da circa seimila anime, ma
roccaforte-caposaldo del Regno, testa di ponte verso il Levante e porto
di primario interesse nell'economia di Venezia, che contava mercanti e
consolati in terra di Puglia. Marcello salpò il mattino del 15 maggio
per comparire nella rada gallipolina l'alba del 16 con un'Armata di una
sessantina di navigli, 7.000 fanti, 200 stradiotti (cavalleggeri
balcanici) e 300 cavalli.
Il mattino del 17, schierata la flotta sotto le mura, con un'ambasceria
intimò la resa. Ma con orgoglio la città respinse l'ultimatum,
professandosi suddita fedele al suo re; anzi, pronta ad una resistenza
eroica ed epica, rigettò le allettanti profferte di accomodamento delle
vicine città baronali. Al secco rifiuto iniziò l'assalto di terra e di
mare con un duro combattimento durato tre giorni. Tralascio volutamente
la cronaca dettagliata dell'assedio nel quale gli assediati
resistettero strenuamente con tutte le forze e con ingegno, finendo per
essere non tanto sconfitti quanto sopraffatti dal numero più che dal
valore del nemico. La città confermò la sua fede al sovrano, nulla
sperando dai baroni locali, tranne un esiguo manipolo vanamente inviato
da Lecce per farvi tempestivo ritorno. Si distinsero sugli spalti le
donne gallipolitane, celebrate con tutti gli onori anche dagl'invasori,
e si contarono alla fine 50 vittime (200 per il Tafuri con 40
"femmine", di cui Latonia Barella, Angela Guglielmo, Maria Grassi).
Secondo il Galateo, Gallipoli "fu città di sperimentata fedeltà e
valore, perché senza alcun aiuto esterno, si oppose ai nemici fino alla
morte", aggiungendo che, "se tutte le città di questo Regno avessero
avuto il coraggio dei Leccesi, dei Tarantini, dei Gallipolitani e degli
Otrantini, non patiremmo quei molti mali che ci opprimono". La città
subì soprusi e ruberie (l'archivio civico?), ma non si segnalarono
specificamente violenze, se i Veneziani, rispettosi del diritto, non si
comportarono come i Turchi. I Neretini, ammirato lo spettacolo dalle
vicine serre, pensarono però bene di non intervenire e di precipitarsi
a mandare i loro messi ad offrire l'ossequiosa obbedienza, consegnando
le chiavi della città al segretario veneziano Alvise Sagondino. Se il
21 maggio Nardò si arrese senza colpo ferire, sono da confutare le
false asserzioni che inventò il Tafuri della sua città assediata, di
una difesa ad oltranza, di saccheggi e stragi, solo per mistificare
l'infamia di tradimento, tant'è che per giustificare la codardia, osò
spudoratamente dichiarare che i Veneziani si erano rivelati "peggio di
quei cani dei Turchi".
Il Malipiero, avuta Nardò, intendeva puntare con la cavalleria su Lecce
e poi su Brindisi, Monopoli, Manfredonia. Era un disegno strategico,
favorito dalla conquista simultanea e incondizionata di altri 22 centri
(tra cui Galatone, Copertino, Veglie, Leverano, Seclì, Aradeo,
Parabita, Matino, Taviano, Racale, Alliste, Felline, Supersano,
Casarano), sobillati da Nardò, "perfida et improba", e dai baroni
locali che ne incoraggiarono e favorirono la resa. Solo S. Pietro in
Galatina resistette a due attacchi veneziani, obbligando gli aggressori
a ritirarsi, mentre anche Lecce lealmente si opponeva. Solo quando
Nardò e le vicine città erano occupate dai Veneziani, le armate
aragonesi si trovavano in stato d'allerta, pronte a mobilitarsi. La
flotta (22 navi da carico e 30 galee) agli ordini di Federico
d'Aragona, secondogenito del re, navigava al largo di Leuca, senza
iniziative militari per il recupero di Gallipoli, ma per partecipare
(il 12 agosto, a pace già siglata) a sporadiche scaramucce presso
Ugento.
Le milizie terrestri, comandate dal marchese di Bitonto Andrea Matteo
Acquaviva e dal principe d'Altamura Pirro del Balzo, Gran Contestabile
del Regno e fratello di Anghilberto duca di Nardò, entrambi fautori e
capi della rivolta baronale del 1485, raggiunsero il territorio
salentino solo per presidiare il castello di Lecce; erano gli aiuti
promessi dal re, pervenuti solo il sei d'agosto, vigilia della pace.
Presidiata dai soldati veneti Terra d'Otranto, il marchese di Bitonto
si premurava di comunicare ai Veneziani la sua disponibilità ad una
ribellione unitamente ai principi di Rossano e Bisignano; erano pure
pronte 60 città di Puglia, Basilicata e Calabria, i cui feudatari
godevano di autorevole prestigio. Gallipoli non poteva aspettarsi nulla
dai baroni locali signori del Salento né dalle truppe regie. Per tale
ragione, a capitolazione avvenuta, uscì allo scoperto il partito
filo-veneto che, per conto dell'Università gallipolitana, fece
pervenire il 22 maggio al Senato veneziano un'accorata preghiera di
scuse con un impegno di obbedienza. Tali sotterfugi confermano che a
Gallipoli, durante l'occupazione, il potere decisionale era
condizionato da infiltrati dei signori feudatari. Le loro trame avevano
favorito Venezia, che accettò con qualche remora possibili trattative
con personaggi infidi e inaffidabili, nelle cui mani erano cadute le
sorti delle popolazioni meridionali. Non era irreale il progetto del
principe Alfonso, se con insistenza, al tempo della guerra di Ferrara,
ebbe a perorare, al re suo padre, una limitazione dell'autorità
baronale nel territorio periferico insieme ad una più razionale e
radicale riforma del sistema amministrativo del Regno.
Il Malipiero, preso possesso di Gallipoli, diede ordine alle truppe di
rispettare l'onestà delle donne, messe al sicuro prima nella cattedrale
e poi nel castello, per essere infine restituite ai rispettivi
congiunti, mentre il Senato raccomandava di trattare i cittadini con
riguardo ma pure di realizzare l'opera di fortificazione, perché "per
la conditione del sito quella terra se potrà redur facilmente in
isola". Nei quattro mesi d'occupazione il Malipiero s'insediò nel
castello, trattando i cittadini assai umanamente e non con sistemi
vessatori, come fece credere il Tafuri drammatizzando e travisando la
realtà storica.
Tenendo nel dovuto conto la testimonianza del Galateo, coevo
all'episodio, e la narrazione apologetica del Malipiero, partecipe
all'operazione militare, occorre convenire che si amministrò la
cittadinanza con saggezza. Fu riserbato gran rispetto al coraggio delle
donne, che lottarono come le antiche Spartane, e al comportamento
esemplare, epico ed eroico dei cittadini, la cui reiterata lealtà era
da encomiare, a differenza delle città baronali che, macchiandosi
d'infamia e tramando, tradirono per passare al nemico senza opporre
resistenza. I baroni locali furono infedeli al re, non mossero un dito
contro l'invasione né restarono rammaricati dell'attacco inferto a
Gallipoli, capro espiatorio da offrire alla Serenissima in cambio della
lusinga di probabili privilegi superiori a quelli concessi dal loro re.
Nardò, indotta dal suo feudatario a passare subdolamente dall'altra
parte, punita severamente dalla Corona più degli altri centri ribelli,
fu degradata a casale aperto, assoggettato al dominio della fedelissima
Lecce. Ritornò poi in possesso del legittimo feudatario Anghilberto Del
Balzo, la cui assenza dalla città nell'infausta circostanza resta
un'incognita inspiegabile, pur essendo nota la sua delazione in
occasione della congiura dei baroni, il che servì a salvarlo se gli
valse il mantenimento dell'antico feudo di famiglia. Chi aveva operato
con lealtà fu invece remunerato, con misure particolari adottate a
favore di Lecce, Galatina e Gallipoli, del cui danno il re mostrò
dolore e rammarico nelle sue personali missive.
Il 7 agosto, in sintonia con la definizione del conflitto estense, fu
firmata, a Bagnolo di Reggio Emilia, la pace che componeva i rapporti
tra Venezia e Napoli. Il 6 settembre approdarono in Terra d'Otranto
Marino Brancaccio, Viceré della provincia, Giovan Battista Caracciolo,
cavaliere napoletano, Luigi Paladini, barone di Campi, Almerico da Lugo
e Tommaso Barone Portolano di Taranto, delegati per le trattative con
l'ambasceria di notabili veneti guidati da Malipiero e Sagondino. Il 9
settembre si discusse del rilascio delle 22 località del basso Salento,
che si erano arrese col beneplacito dei signori feudatari, ed il 15 si
definì la liberazione di Gallipoli con atto rogato per notar Francesco
de Cannarillibus. Tra i testi il governatore Pietro Ribera, il sindaco
Costantino Specolizzi, il castellano Andrea Longo de Tana, il vescovo
Alfonso Spinelli. Si sanciva così, con la recuperata libertà, la
consegna della città alla Corona, a cui i cittadini avevano offerto,
con eroico patriottismo, la provata conferma della loro fedeltà.
Forte di ciò, l'Università gallipolitana, il 9 dicembre 1484, tra le
altre grazie richieste e accolte (cfr. "Il Libro Rosso"), invocò invano
la restituzione dell'usurpata sede episcopale con la reintegrazione
dell'antica diocesi gallipolitana, "considerata la fidelità de detta
Città et rebellione della Città de Neritone fatta a vostra Maestà".
Restava aperta una lunga vexata quaestio, una ferita datata 1284
(regnante Carlo II d'Angiò), allorché gli Abati Benedettini, conniventi
col feudatario locale ed arbitri della Chiesa neretina di rito latino,
colsero l'occasione per ottenere la scissione di un'ampia giurisdizione
che escludeva la fascia costiera dal Pizzo alla Montagna spaccata con
vertice passante all'interno per contrada Pràndico presso Tuglie. Così
la Diocesi gallipolitana, di rito greco, finì per essere mutilata e
stranamente limitata al solo "scoglio abitato", inesistenti essendo
allora i Comuni di Alezio e Sannicola!
Gino Schirosi