Mi aveva sempre incuriosito questa antichissima tradizione che vieta,
non solo alle donne, ma a qualunque essere di sesso femminile, di
mettere piede "al sacro monte".
Ovviamente è solo uno degli aspetti che rendono questo Stato monastico unico al mondo.
Intanto l'Athos è una terra indipendente, anche se è la Grecia che
provvede a garantirne la sicurezza, fornendo soldati alle frontiere e
mezzi navali a sorvegliare le coste. Per il resto gode di una perfetta
autonomia e sovranità territoriale.
Attualmente esistono venti monasteri di cui il più antico, la Grande
Lavra, costruito nel 963. Oltre ai monasteri ci sono alcune skiti,
circa venti, che ospitano comunità monastiche più piccole; e infine,
sparse qua e là nei luoghi più inaccessibili, capanne o addirittura
ripari scavati nella roccia dove vivono gli ultimi eremiti.
Devo confessare che il richiamo più forte verso l'Athos era dato
proprio dall'idea di incontrare qualcuno di questi uomini eccezionali.
Per un certo periodo ho letto con avidità libri e testimonianze sul
sacro monte, ma le notizie su di loro erano scarse. Del resto è già
difficile incontrarli e gli stessi monaci che vivono lì da tanto tempo
e che volte hanno qualche raro contatto, ne parlano sì con grande
rispetto, ma in maniera elusiva.
Sono uomini che hanno tagliato ogni legame con il mondo; anche la
piccola comunità monastica, per loro, è un ostacolo al dialogo diretto
con Dio. Vivono di niente, i loro corpi fragilissimi, stremati dal
digiuno, sono quasi evanescenti. C'è chi giura di averli visti pregare
galleggiando per aria, alcuni pescatori, molto più verosimilmente,
legati ad un albero per non cadere di sotto, completamente dimentichi
di sè e del mondo nei momenti di rapimento estatico.
Decidere di visitare l'Athos non è già andarci. Bisogna chiedere il
permesso alle gerarchie ecclesiastiche della Chiesa ortodossa, spiegare
il motivo della visita e, in caso di risposta positiva, aspettare il
proprio turno. Il numero giornaliero di visitatori è fissato a
centoquaranta. Questa disposizione si è resa necessaria negli ultimi
anni, per evitare l'assalto di pellegrini e curiosi che arrivano da
tutto il mondo.
Come mio solito, parto senza organizzare niente, arrivo in Grecia non
avendo nemmeno fatto domanda alle autorità religiose. A Sivota, dove
resto di solito due o tre giorni prima di iniziare le mie escursioni,
parlo con Johanna, ormai ci conosciamo da anni, ed è lei che si occupa
di tutto.
In men che non si dica ottengo il permesso. L'appuntamento è
Ouranopoli, nella penisola Calcidica, base di partenza per l'Athos. Vi
arrivo in due giorni di viaggio in macchina, dopo aver fatto tappa ad
un altro dei luoghi suggestivi della spiritualità greca: le Meteore.
Mi precipito all'ufficio preposto e l'impiegato scorrendo l'elenco
scuote la testa; il mio nome non c'è, ma con sorriso benevolo mi dice
di aver fede e ripassare tra qualche giorno. Già all'indomani, per
fortuna, ho conferma del viaggio, ma dovrò aspettare ancora due giorni;
pago l'equivalente di trenta euro e ritiro il permesso.
Ouranopoli, mai nome fu così appropriato (significa città del cielo), è
un piccolo borgo brulicante di gente che arriva da ogni parte del
mondo. Essendo luogo di partenza e di arrivo è in continuo fermento.
Confusi tra la folla si notano alcuni monaci, anche tra loro c'è chi
arriva e c'è chi parte.
Il cameriere, che mi serve il tradizionale caffè alla greca, mi informa
che in questo periodo (siamo in estate) molti monaci lasciano il
monastero per andare a trovare i parenti.
La sera prima della partenza incontro appunto uno di loro: arriva dalla
Francia, dov'era andato a trovare i vecchi genitori. Quando arrivo alla
taberna è seduto al tavolo e aspetta che gli servano la cena. Mi
colpisce per il suo aspetto, è giovane, meno di trent'anni, ha i
capelli scuri e bellissimi occhi verdi. Quando si alza per andare a
salutare il titolare, noto che la sua figura, alta e slanciata, è resa
ancora più ieratica dal lungo abito scuro. Chissà quante ragazze gli
correrebbero dietro, penso fra me, se invece di star qui se ne andasse
a passeggiare in qualche località alla moda. Eppure ha lasciato tutto
per venire in questo luogo di preghiera e di rinunce. Sul suo volto non
c'è nessun segno di sofferenza, anzi è la sua giovialità che mi
colpisce. Ha ordinato sardine fritte e pomodori, faccio lo stesso
anch'io, nella speranza che questa coincidenza di gusti possa servire,
chissà come poi, a instaurare un qualche dialogo. Ma è il titolare che
ci pensa, informato da me che l'indomani parto per l'Athos, vedo che mi
indica al monaco, il quale mi fa cenno della testa. Non mi lascio
sfuggire l'occasione e gli chiedo se possiamo cenare insieme. Senza
rispondere prende piatti e posate e si trasferisce al mio tavolo.
Essendo il suo Italiano migliore del mio Francese, decidiamo di
conversare nella mia lingua. Capisco subito che non si può impostare la
conversazione secondo le tradizionali domande, del tipo "cosa ti ha
spinto ad abbracciare una vita di rinunce" oppure "dev'essere
impegnativo seguire le dure regole dell'ortodossia" perché tutta la sua
figura trasmette una sensazione di serenità e di pace interiore. Sicché
parto subito con l'argomento che più mi sta a cuore: "c'è la
possibilità di andare a far visita a qualche eremita?" Lui sorride e
quasi con esitazione mi dice che nei primi mesi di permanenza all'Athos
ebbe la fortuna di scambiare qualche battuta con un monaco solitario,
dal quale si era recato per portare un po' di pane secco e qualche
scatoletta di sardine. Ma non dice altro, diventa improvvisamente serio
e il suo sguardo si perde lontano.
Per alcuni interminabili minuti è come se io non ci fossi, né mi
azzardo a rompere quel silenzio. E' lui che terminata la frugale cena
chiama per farsi portare il conto. Chiedo timidamente se posso offrire
io, ma il titolare della taberna si mette la mano sul cuore come per
dire che è un onore che spetta a lui. Un po' imbarazzato perché
convinto di aver agito con poco tatto saluto, lui riprende il suo
solito sorriso e inizia a conversare in Greco col suo amico oste.
Finalmente arriva il giorno della partenza. Con buon anticipo prendo
posto sul battello dove già trovo alcuni gruppi di pellegrini, qualche
monaco e qualche solitario viaggiatore come me. Mi avevano informato
che conviene prenotare presso il monastero che si vuol visitare, per
essere sicuri di trovare posto. Un po' per la difficoltà della lingua,
ma soprattutto perché voglio andare nella parte più meridionale
dell'Athos, parto senza prenotazione. Sarò l'ultimo a scendere, infatti
ho deciso di chiedere ospitalità al monastero di San Dionisio, oltre il
quale non è stato edificato niente. E' la cosiddetta Tebaide o "Deserto
verticale", un paesaggio molto duro e inospitale, dove vivono isolati
alcuni anacoreti. La loro solitudine è totale, soli in vita e anche in
morte. Infatti i loro resti mortali rimangono sul terreno fino a quando
un altro monaco solitario non li troverà per raccoglierli e custodirli
amorevolmente.
Dopo circa due ore di navigazione si scorge l'imponente costruzione di
San Dionisio. Nei vari scali, presso i vari monasteri, sono sbarcati a
gruppi quasi tutti i visitatori, noto con piacere che siamo rimasti in
pochi, una decina, fra cui un architetto Greco che ha lavorato per
alcuni anni in Italia. Ci presentiamo e chiacchieriamo per il resto del
viaggio. Dev'essere una persona importante, visto che mi parla di
consulenze da lui svolte per gli Uffizi e il Vaticano. Me ne parla con
semplicità e modestia, adesso è incaricato dall'Unione Europea di
redigere progetti per il risanamento di alcuni monasteri. Infatti
all'attracco viene a riceverlo l'Abate in persona. Sono già le tre del
pomeriggio e le cucine sono chiuse, ma per l'ospite di riguardo vengono
riaperte; con mia grande sorpresa sono invitato anch'io. Ci servono un
delizioso sformato di maccheroni e un contorno di verdure del loro
orto.
Il monastero è una città in miniatura. C'è un sistema di viuzze che
mette in comunicazione i vari edifici. Un monaco gentilissimo ci
conduce nelle rispettive celle, dove c'è appena lo spazio per un
rustico letto, una sedia e un tavolinetto; i bagni sono in comune.
Mi cambio rapidamente e torno fuori. La sensazione è notevole. Il
silenzio, le viuzze, i muri antichi, il passo svelto di un frate che
attraversa il cortile, riportano a epoche remote. Mi affaccio da un
arco e scopro un ripido sentiero che porta verso il mare. Il monastero
è costruito proprio a ridosso della costa, su un dislivello di alcune
centinaia di metri. Con una discesa ripida arrivo sulla riva in un
quarto d'ora.
I frati mi perdoneranno, ma la tentazione di un bagno adamitico, in
quel mare straordinario, è irresistibile. Il tuffo nel mare è anche un
tuffo nel passato. E' il ricordo di spazi solitari, di meriggi assolati
e silenziosi, di fragranze, di sfumature che ormai non cogliamo più. Il
caos e il frastuono ormai caratterizzano le grandi come le piccole
città. Il tempo passa senza che me ne accorga, infatti quando torno sù
la funzione pomeridiana è già finita.
Al calar della sera una campanella annuncia la cena. Monaci e
visitatori prendiamo posto tutti insieme, ma separati, in un ampio
salone. Tutto si svolge nel più assoluto silenzio e per la durata della
cena uno di loro, in piedi su un pulpito, legge passi della Bibbia.
Finita la lettura finisce la cena. I monaci si alzano e in fila uno
dietro l'altro escono e noi dopo di loro.
I visitatori non hanno nessuna restrizione, né obblighi da rispettare,
l'importante è non rompere la quiete. Ma anche noi andiamo a letto
presto. Mentre dormo un sonno profondo vengo svegliato da un toc toc
deciso alla porta e da una formula ripetuta che ovviamente non capisco.
Sento comunque rumori che provengono dalle altre celle e passi nella
notte. Faccio lo stesso anch'io, mi vesto ed esco fuori. Saranno le tre
del mattino. Richiamati da un coro solenne arriviamo in chiesa. Vestiti
nell'abito delle cerimonie, con un lungo copricapo che scende fino
all'altezza dei fianchi, i monaci sono schierati ai lati, mentre al
centro c'è l'officiante. Il tremolio delle candele rende i loro volti
ancor più pallidi e trasparenti: tutta la scena è di una bellezza
misteriosa.
Ritorniamo nelle nostre celle, silenziosi. La notte, il luogo, il
canto, il lume di candela, i volti, lasciano non solo senza parole, ma
tolgono letteralmente il fiato.
Nemmeno durante il giorno si parla molto tra noi, ognuno vuol gustare
in silenzio le proprie sensazioni. Ad arricchire questa esperienza
arriva inatteso ed insperato l'invito dell'Abate a visitare il luogo
più protetto del monastero, dove vengono custoditi oggetti preziosi e
incredibili reliquie. Siamo ammessi solo in tre, io, un Americano ed un
Greco.
Nella biblioteca sono custoditi 1100 manoscritti, 27 rotoli, più di
5000 incunaboli. Vi sono alcuni vangeli risalenti al 1200 con
magnifiche copertine in legno, intagliate con arte sopraffina. E poi
oggetti e paramenti sacri in oro massiccio e tempestati di pietre
preziose. Nell'angolo più riposto, quasi nascosto, c'è un armadietto
dove sono custoditi alcuni cimeli sacri, fra cui un pezzo della catena
di ferro che aveva stretto i polsi dell'Apostolo Pietro, quando era in
prigione a Roma.
La visita sta per finire, è durata ore; siamo entrati nel primo
pomeriggio e il sole ora è quasi al tramonto. Siamo veramente senza
parole dinanzi a tanta magnificenza e a tanta storia. Ognuno di noi si
attarda davanti a qualcosa che lo ha particolarmente colpito, quando il
monaco che ci fa da guida ci invita a raggiungerlo. E' fermo davanti ad
un piedistallo che sorregge un prezioso cofanetto tempestato di gemme.
"Qui è custodita una delle reliquie più preziose di tutto il Sacro
Monte", ci dice. A queste parole l'emozione si dipinge sui nostri volti
in modo evidente, l'Americano sbianca letteralmente. Con movimento
lento viene aperto il cofanetto dove luccica una forma, in oro
purissimo, che ricopre una mano. "E' la sacra mano di Giovanni il
Battista".
Immediatamente provo una contrazione violenta allo stomaco. Si può
essere laici quanto si vuole, ma un momento del genere rappresenta non
solo uno sguardo sulla storia, per chi crede quella reliquia è un punto
di contatto con la verità. Ma lo spirito laico riemerge subito, anzi
come insegnante di storia ricordo a me stesso che quella reliquia
potrebbe non essere autentica. Ci sono stati momenti nella storia in
cui imperversava il culto delle reliquie, e non tutte erano autentiche,
tanto che uno storico ebbe a dire: "se riunissimo tutti i pezzi di
legno attribuiti alla croce di Cristo avremmo un'intera foresta".
Torno tuttavia a concentrarmi sulla mano e penso che potrebbe essere
quella di Giovanni il Battista: di nuovo la contrazione forte allo
stomaco. Basta, è un'emozione troppo forte!
Il pomeriggio se n'è andato per intero, ce ne accorgiamo quando il sole
al tramonto illumina il salone, provocando giochi di luce tra gli ori e
le gemme.
Quel riverbero prezioso non ci incanta più d tanto, fuori dalla
finestra c'è lo spettacolo autentico.
Ho visto altri tramonti in varie parti del mondo. Il sole che si tuffa
nell'oceano, oppure gli incredibili colori dei tramonti in Thailandia,
o a capo Comorin nell'estremità meridionale dell'India.
Ma qui è diverso. Prima di scomparire all'orizzonte il sole illumina
queste vecchie mura, così semplici e modeste, proponendo un'immagine
scenica immutata nel corso del tempo. E anche questa scena che viviamo
qui, del sole al tramonto che illumina il volto di questo vecchio
monaco, si è ripetuta intatta nel passare dei giorni, nel passare dei
secoli. Niente, più del tempo che si ripete uguale, dà l'idea
dell'eternità.
Stretti, uno addosso all'altro, davanti alla finestra restiamo come
incantati. Il silenzio è totale e l'emozione palpabile. Il volto di
George, l'Americano, è solcato da due grossi lacrimoni che lui non cura
minimamente di nascondere.
E' ora di andare, per stemperare l'atmosfera, prima di uscire mi
rivolgo a Gorge commentando la bellezza del tramonto e della natura.
"No" mi risponde lui " è la bellezza di Dio che mi commuove".
Appena fuori, con gli occhi ancora lucidi mi prende in disparte per
dirmi che non se la sente di venire con me l'indomani. Avevamo
programmato di metterci in cammino, lungo un sentiero che ci era stato
indicato, nella speranza di incontrare un eremita. Neanch'io me la
sento, non perché sia turbato, o almeno non lo sono quanto lui. Ma
perché capisco quanta distanza ci sia tra me e un monaco che in questi
luoghi ha deciso di vivere in solitudine.
Con le mie miserie e le mie debolezze sono ancorato su questa terra, così caotica e complessa, lui vive già in un altro mondo.
Remo Natali