I versi di Baudelaire meglio di ogni manuale o trattato parlano della magia della città, del suo potere d'incanto, della sua capacità di far convivere presente, passato e futuro. Si legge sulle pietre come sui libri la storia di una civiltà, si legge passeggiando negli "stretti canali del colosso", nella massa densa delle città antiche. È questa una scoperta che la cultura ufficiale fa a partire dal XVIII sec. con l'inizio dei grand tour, ma più ancora è il flaneur, l'ozioso intellettuale a spasso nelle città affollate a cogliere la capacità delle quinte urbane di raccontare. La città non è l'insieme variamente aggregato delle nostre abitazioni, non un formicaio, ma la rappresentazione più fedele e persistente della nostra storia. Da questo punto di vista le strade, le piazze, i vicoli, muri, mensole e balconi vanno a formare il palcoscenico sul quale da millenni la nostra società si rappresenta: la scena urbana. È questo ciò che ognuno di noi, più o meno consapevolmente, cerca nella città storica, il racconto che stringa un legame con chi, prima di noi, ha costruito la città. Il fondamento dell'identità è proprio questo legame, questo senso di continuità. Gran parte dei turisti che visitano la nostra ed altre città storiche, proviene da grandi agglomerati urbani contemporanei, dove il filo dell'identità è stato spezzato dall'anonimato delle periferie, dei quartieri residenziali, dove il racconto del passato, del presente e del futuro è flebile o del tutto inesistente. Chiunque attraversi una città come Gallipoli è quindi in cerca di un'identità, che sia la sua o una da cercare in prestito per pochi giorni o settimane. La città contemporanea infatti, ha raramente una scena, è una città muta o peggio ancora è una città il cui racconto è triste o poco interessante, perchè costruita senza alcuna intenzione o impulso simbolico-estetico, ma meramente speculativo o razionale. Per compensare l'assenza di una dimensione magica, nella città contemporanea, si ricorre spesso ad una disperata e goffa riproduzione del passato o a slanci deliranti nel futuro. La città si popola così di case, alberghi e residence che scimmiottano e mescolano templi e dischi volanti, castelli e scenografie degne di Bollywood. Ma sia i neotempli che le villette UFO sono tirate su con identica tecnica costruttiva, che non ha a che vedere né con un modo di costruire veramente "antico", né con uno veramente "futuro". Il costruire è un atto tecnico ma ha chiare implicazioni culturali, ed è comunque un atto che ha bisogno di una giustificazione simbolica, giustificazione che è sempre più difficile affidare ai sette nani nel giardino o ai leoni e aquile di gesso che minacciano sull'ingresso. Alla luce della povertà simbolica della città contemporanea, la città storica assume un'importanza ancora maggiore, come luogo dove resiste uno spazio a misura d'uomo, spazio dove ancora è possibile ascoltare la voce della città, assistere al suo racconto di pietra, dal racconto intimo e sommesso dei vicoli e delle corti a quello altisonante delle cattedrali e dei palazzi. "Vicolo: una croce di case/che si chiamano piano,/e non sanno ch'è paura/di restare sole nel buio." (S. Quasimodo, Vicolo, "Acque e terre").
La rovina della scena urbana
Cosa succede oggi alla scena della nostra città, al suo racconto di pietra, viaggio nel mediterraneo, con i suoi portali spagnoli, le logge maltesi, le facce pietrificate di turchi e africani sui balconi? Gallipoli oggi è una città col bavaglio, il suo racconto è ammutolito, silenziato da un'indegna selva di fili elettrici, condizionatori d'aria, insegne luminose, infissi in alluminio, chioschi che crescono come bubboni, cancelli che sbarrano le corti. Mensole, facce di pietra, maschere, capitelli scompaiono dietro ad un'incrostazione invadente degli orpelli e congegni di un presente senza regole. Insieme all'intero tessuto storico, tacciono anche le architetture simbolo, imbavagliato il racconto delle ninfe greche della fontana, chiuso e svenduto il castello.
È senza dubbio un bene che il centro storico sia pulsante di vita e attività, ma la forma e l'ordine di queste attività non può essere lasciata al caso o all'arbitrio dei singoli. Gli amministratori dovrebbero assumersi la responsabilità di guidare e ordinare ogni fenomeno, grande o piccolo che sia, che attraversi la città. La vitalità del centro storico deve essere l'occasione per il suo recupero, non la causa del suo imbarbarimento. Un tempo quando Gallipoli era il centro del commercio dell'olio nel Mediterraneo, la città si divise quasi in due livelli. Il livello epigeo, la superficie, restava il luogo della città vera e propria, i palazzi mostravano, rappresentavano il potere, la ricchezza delle famiglie nobili e dei mercanti fortunati. Il livello ipogeo, il sottosuolo, diventava il supporto all'economia dell'olio, lo spazio dove trovavano posto frantoi e pile. Oggi passati dall'economia dell'olio lampante a quella dell'olio fritto, con secoli di civiltà alle spalle, la città è in balia di se stessa, incapace di gestire il turismo e le sue esigenze. È assolutamente legittimo che ristoranti, bar e pub possano usufruire degli spazi offerti dalla città per integrare la capacità ricettiva delle rispettive attività, ma nel centro storico di Gallipoli la cattiva gestione delle concessioni di suolo pubblico ha creato una condizione di caos e degrado del decoro urbano. Il rilascio di tali concessioni non è avvenuto secondo alcun criterio discriminante e selettivo, assolutamente necessario in un ambito delicato dal punto di vista della qualità estetica come il centro storico. Il risultato è un uso spregiudicato di colori e materiali e ancora peggio una vera e propria invasione degli spazi, che non risparmia punti panoramici, chiese e le poche piazzette del centro storico. Si assiste in pratica ad una privatizzazione dei panorami, dei punti di vista, una "incrostazione" permanente degli scorci più suggestivi della città storica. È più che mai urgente una netta inversione di tendenza. La scena urbana deve essere al centro di una pianificazione apposita, un piano del colore, con cui l'amministrazione si riappropri degli spazi e delle quinte urbane, partecipando con incentivi alle spese di chi deve affontare la manutenzione di una facciata con fregi in pietra, con infissi in legno, sottoposta all'azione erosiva dell'aerosol marino. Non si tratta però soltanto di altra carta e altre regole da chiudere in un cassetto, si tratta di cambiare radicalmente punto di vista, di adottare il punto di vista del turista, "the tourist gaze". È un processo che altre città hanno avviato da anni, preoccupandosi di guardare alla propria città storica con gli occhi di chi si aspetta di essere incantato, meravigliato, rapito in un'esperienza. Per ripristinare l'incanto del nostro angolo di mediterraneo è necessario che l'asfalto lasci il posto al basolato, che condizionatori e fili elettrici lascino parlare maschere e stemmi di pietra, che le insegne non rubino la scena agli stucchi, che le automobili e i chioschi lascino spazio alla passeggiata silenziosa di chi, rapito da Gallipoli inventi un suo personale viaggio nella storia della nostra città.
"Taranto vecchia è qualcosa di simile, ma Gallipoli, più grande, più amena, più luminosa, sembra quasi galleggiare sulle acque. Così la vidi, la prima volta, e m'incantò, e poi tante altre volte, ché sempre, se si viene nel Salento, si finisce per farci una corsa: nostalgia del Sud più spinto, e quasi sentore della costa africana.(?) Gallipoli scomparve presto all'orizzonte, ma quando la rivedemmo dal mare, quasi sospesa fra due cieli, sembrava prendere il largo. Forse così apparve l'Arca, una volta calmata la bufera, e il cielo si rifletté sull'acqua. Il fango divenne azzurro." (tratto da: Cesare Brandi, "Pellegrino di Puglia")