Finchè uomini respirano e occhi vedono,
di tanto vivranno i versi, a te ridando vita.
(W. Shakespeare)
Negli anni quaranta del Novecento, in una settecentesca casa paliatata con giardino all'italiana e ampia loggia belvedere, profumata dai grappoli penduli del glicine, vivevano due ragazze dell'aristocrazia salentina: Enza e Tina Vergine, figlie del colonnello dell'esercito Carlo e della signora Luisa Guglielmi.
La prima sarà la moglie di Giuseppe Nicolosi, mago dell'urbanistica; la seconda andrà sposa a Carmine Cecere, magistrato a Lecce e poi a Roma.
Intelligente e spigliata, Enza aspettava di tanto in tanto, con comprensibile ansia, l'arrivo a Ruffano del suo fidanzato Giuseppe Nicolosi (Beppe per i familiari e gli amici) urbanista di fama internazionale e docente all'Università la Sapienza di Roma, per fare lunghe romantiche passeggiate sulle serre di Ruffano alla ricerca di un mannello di ginestra tinctoria, con i cui fiori gialli gli antichi ruffanesi tingevano i panni battuti al telaio.
Si erano conosciuti sulla tratta ferroviaria Firenze-Bologna: lui già apprezzato docente universitario e lei studentessa universitaria.
Il 25 agosto del 1945 Enza Vergine e Giuseppe Nicolosi coronavano il loro sogno d'amore nella settecentesca chiesa matrice di Ruffano, che quest'anno compirà trecento anni dalla erezione (1706-2006). Tanto risulta dall'atto di matrimonio stilato dal parroco del tempo Mons. Francesco Fiorito. Testimoni per lo sposo, i signori Bartolo Vaglio Massa da Lecce e Carmine Cecere da Bari che sposerà poi, come s'è detto, la sorella di Enza, Tina. Per la sposa testimoni: Alessandro Castrista Scanderbeg da Ruffano e Salvatore Colona da Torrepaduli.
Beppe amava profondamente due cose: il lavoro e la famiglia, e quindi poneva molta attenzione alla casa, quale contenitore naturale della famiglia, che definiva il centro dello sviluppo civile e sociale. Concetto ribadito sulla rivista "Tecnica e Civiltà" ( Marzorati, Milano 1960) laddove "la nostra casa, la casa della nostra famiglia" assume un ruolo importante nella progettazione da parte dell'architetto.
Uomo di rara intelligenza ed altrettanta signorilità, sempre assetato di nuove conoscenze sul vecchio Salento, passava con me interi pomeriggi in lunghe passeggiate tra la grotta del paleolitico della Trinità e quella bizantina del Crocefisso, sulla collina di Manfio a Ruffano, dove è visibile il passaggio dal rito greco a quello latino attraverso gli affreschi di quel cenobio, prima basiliano poi francescano e infine olivetano, sotto la protezione feudale, dal Tre al Quattrocento, di Gio. Antonio del Balzo-Orsini, principe di Taranto, conte di Soleto e di S. Pietro in Galatina, e della mamma sua Maria d'Enghien, regina di Napoli e contessa di Lecce; nonché della sua consorte Anna Colonna che per via dello zio, papa Martino V, disponeva largamente di privilegi, indulgenze e reliquie, comprese quelle delle crociate, che saggiamente amministrava nel trecentesco tempio di S. Caterina d'Alessandria in Galatina, gioiello per i testi di storia dell'arte, che Beppe ben conosceva.
Beppe mi seguiva con attenzione seduto su di un blocco striato di verde della pregiata pietra di Manfio per riposarsi e per dichiararsi pronto il giorno seguente ad andare per masserie. Cosa che puntualmente accadeva iniziando dalla masseria altomedieoevale di Stanzie, luogo di sosta per i pellegrini che si recavano alla perdonanza del santuario di S. Maria di Leuca attraverso la via misteriosa, ultima propaggine di quella Francigena, che attraversava l'immenso bosco Belvedere, tana preferita di volpi, lepri, conigli, tassi, istrici, ricci, faine, cinghiali, folaghe, gallinelle d'acqua, polli sultani, porciglioni, germani reali, marzaiole, beccaccini, croccoloni, aironi, fagiani, starne, pernici, tra piante d'alto fusto, laghetti, biscie, in un intrico di passiflora, di spina Christi, e di clematides.
Il massaro ci offriva una frisella d'orzo condita con olio e pomodoro, che Beppe gustava commentandone la bontà. Passavamo poi alla vicina masseria di Sombrino dove il portale di una chiesa diruta era la gioia architettonica di Beppe. Raggiungevamo quindi la masseria della Varna, settecentesco casino di caccia del barone Capace, per poi raggiungere la masseria di Cardigliano di Sotto del 1405, ultima tappa della transumanza abruzzese, dove il massaro ci offriva le fresche mozzarelle per la cena. La luna, ormai alta, illuminava il vuoto scenario della masseria di Cardigliano di Sopra (1930) dove l'architettura moresca richiamava l'attenzione di Beppe, mentre lo seguivo con i fari accesi della macchina.
Le serate d'estate, invece, le passavamo a Gallipoli tra le tante chiese e palazzi della città vecchia, soffermandoci in particolare sui palazzi ubicati nelle strade strette e anguste che si ergono piano su piano, con balconi, altane, terrazze e mignani in cerca di un raggio di sole, come palazzo Doxi Stracca, mentre i bassi spalancano le porte come tante bocche per respirare. E qui Beppe riprendeva il suo tema sulla casa e la sua funzione nella vita familiare e sociale.
La tappa finale era sempre la stessa: il bastione di S. Francesco con alle spalle la chiesa del Santo d'Assisi che conserva la dannunziana " Orrida bellezza " del Malladrone che muore in croce sul Golgotha bestemmiando, e che l'arte dello scultore gallipolino Vespasiano Genuino traduce in una stupenda statua racchiusa nella cappella del castellano, marchese de la Cueva.
Fuori la chiesa, Beppe respirava a pieni polmoni la brezza del mare della baia della Purità per poi entrare nel catino ovoidale della chiesa del Rosario costruita dallo stesso architetto Valerio Margoleo, che il 1706 aveva eretto la chiesa matrice di Ruffano dove il prof. Giuseppe Nicolosi aveva impalmato la signorina Enza Vergine. Una circostanza che lo rendeva felice a Gallipoli come a Ruffano.
Poi Beppe guardava fisso verso il mare, il grande spazio che sempre lo affascinava, fino all'isola di Sant'Andrea, come a volerne delineare i confini per una grande piazza che disegnava servendosi forse del volo dei gabbiani, che seguiva con lo sguardo sempre più lontano verso il faro che nel frattempo aveva acceso le sue luci a doppio fascio.
Dal 1981 il grande architetto guarda ormai altri spazi... Quelli celesti!
Aldo DE BERNART