Nella chiesa del Rosario a Gallipoli è stato restaurato il pregevolissimo altare di S. Domenico, tra il pergamo e l'accesso in sacrestia. È il trionfo del barocco in Terra d'Otranto ritornato a nuova luce, testimonianza emblematica dello splendore dell'arte sacra pugliese. Si tratta di una complessa, dinamica struttura lignea integralmente dipinta in oro zecchino, alta sei metri. L'intera opera, completata nella prima metà del XVIII sec., è attribuita, dalla bibliografia locale e dalla tradizione, al tedesco Giorgio Aver, noto per i suoi lavori in Cattedrale (pulpito e coro).
L'arricchimento dell'altare è dovuto al Padre Maestro Fra Domenico Stradiotti, esimio predicatore e provinciale dell'Ordine domenicano. S'impegnò personalmente a rinnovare e adornare il convento, arricchendo di prestigio la bellezza della chiesa, dotata, già nel corso del XVII sec., di pregi artistici tra i più notevoli della città (B. Ravenna, Memorie istoriche della città di Gallipoli, Napoli, 1836, p. 367). A tal proposito significativa è l'attestazione del Micetti che, del domenicano Padre Maestro (più volte vicario generale della provincia di S. Tommaso di Puglia, O.P.P.), registra nel suo manoscritto due iscrizioni del 1674 allora presenti nei due cartigli ai due lati dell'altare. Solo che i caratteri già abrasi sono coperti da vernice dorata fino a scomparire del tutto, mentre l'intero fondale ha restituito solo oggi l'originale decorazione floreale dorata (colore su colore). La più interessante tra le due iscrizioni, citate dal Ravenna, attesta l'antica attribuzione del patronato alla famiglia Stradiotti, anzi pare proprio che fosse lo stesso Padre Maestro Domenico, figlio del dottor Nicola, a dedicare a S. Domenico, Padre dei Predicatori, protettore della devota famiglia, questo sacro altare come gentile voto degli antenati, adornato con più splendido culto, a testimonianza della memoria dei suoi (B. Ravenna, op. cit., p. 368; G. Schirosi, La chiesa del Rosario in Gallipoli, Alezio 1999, pp. 146-149).
Il dossale è interamente decorato con lamine d'oro zecchino sino alla statua di S. Domenico dominante il mirabile fastigio: il santo è in gloria, tra un assieme compositivo di una singolare armonia architettonica. L'impareggiabile frontone, scolpito in legno, poggia su due plinti da cui si ergono pilastri intagliati a spirale sino ad una trabeazione che s'interrompe per accogliere in legno dorato sopra il fastigio, nella cimasa mediana, la statua trionfante del santo di Calaruega, che brandendo con la destra il Crocifisso si staglia su uno sfondo solcato da raggiera d'oro.
Al centro dell'altare, affiancato e sormontato da una struttura decorativa dorata, è la tela di S. Domenico Soriano, semplice ed essenziale anche nelle misure. Il dipinto sembra essere antico e può essere datato con qualche attendibilità intorno agli inizi del '600, mentre l'autore resta tuttora ignoto. Il grande "archimandrita" è raffigurato in posizione eretta e frontale ma con un libro sulla destra (la sapienza) e un giglio nella sinistra (la purezza); la scritta incisa in basso sulla tela (Retratto di S. Domenico di Surio) è a ricordo del noto miracolo, l'apparizione della Vergine. È la più modesta pala d'altare della chiesa (m. 1,60 × 0,70), ma non è la meno importante. La cona è incassata al centro della monumentale struttura aggettante ai due lati, sicché dà semplicemente l'idea di un quadro appeso al centro del dossale incastonato tra le colonne tortili, dorate alla pari dell'altare e dell'intera cappella. Due putti alati, disposti lateralmente, pare sorreggano il quadro che, inserito in una pioggia dorata, è sormontato da un grande angelo e da teste di putti alati su cui poggia l'ultima raffigurazione del santo che conclude il tema proposto dall'alzata in un movimento di vittoria, fin quasi a lambire con la testa la volta arcuata del monumentale altare.
La cappella, nel rispetto armonioso che la contraddistingue, è nel suo complesso la celebrazione del santo e del suo Ordine. Lo conferma il paliotto, che in pietra leccese, come la mensa (entrambi della I metà del '700), era stuccato a colori (rosso e verde ormai assenti) e impreziosito da intagli, fregi e sculture in finto marmo. Al centro di un assieme di fregi ornamentali (a bassorilievo con dorature e stuccature sbiadite), inseriti in un ovale incoronato di volute e di gigli, spicca lo stemma campito da simboli domenicani: il cane con la torcia, la corona di Spagna, poi i gigli e la stella. Uno stemma simile sormonta l'arco d'ingresso del portone centrale della ex Scuola Media di via Rosario, l'ex convento domenicano.
Ai lati della cappella due nicchie contengono simulacri lapidei (alti m. 1,50, fine XVII-inizi XVIII sec.) raffiguranti celebri sante dell'Ordine: sul fronte di ciascuna base si legge (nel cartiglio di sinistra) 'S. Catharina' (senese), e (in quello di destra) 'S. Rosa de Lima', terziaria domenicana peruviana, deceduta trentenne (1617) e canonizzata nel 1671 (la prima santa delle Americhe). Entrambe sono dipinte in oro zecchino, peraltro in linea con dossale, pareti laterali e volta.
Al di sopra delle sante domenicane, a sinistra e a destra due tele circolari (dm. m. 0,80) in cornice stuccata d'oro ostentano i ritratti rispettivamente di un presule ripreso frontalmente a mezzo busto e di un nobiluomo in divisa militare. Prima del restauro, a corto di dati illuminanti, si è pensato risalissero non oltre la metà del XVII sec. Per questo motivo non è stato azzardato vedervi mons. Alfonso de Herrera, spagnolo, monaco agostiniano e cappellano di Don Giovanni d'Austria nella battaglia di Lepanto, poi vescovo di Gallipoli dal 1576 al 1585, non solo in quanto speculare dell'altro dipinto che gli è contrapposto.
Sulla parete destra, simmetrico al precedente e coevo per qualità stilistica, c'è l'altro tondo col ritratto di un nobiluomo, che a prima vista è sembrato trattarsi d'un principe. Regge ampio vessillo svolazzante, con stemma crociato della Casa regnante spagnola, riconducibile al ramo d'Austria, mentre sullo sfondo, prima del restauro, si intravedeva l'ombra d'una galea con vele sfumate. A ragione delle presenze simboliche, si è pensato riconoscere proprio il principe don Giovanni d'Austria, fratellastro di Filippo II re di Spagna e protagonista del fatto d'arme dell'ultima Crociata, sfociato nella vittoria di Lepanto. Se fosse vero, ciò starebbe a significare che per quel personaggio fu tanto il debito della Cristianità e dell'Ordine domenicano, in prima fila in occasione della storica vicenda, magistralmente affrescata in sacrestia. I due ovali specularmente contrapposti (il principe don Giovanni e mons. Herrera, vescovo di Gallipoli dopo il miracoloso episodio bellico) dovevano essere un omaggio riconoscente dei domenicani di Gallipoli ai due principali protagonisti di quell'impresa memorabile che diede inizio alla festività della Beata Vergine del Rosario già venerata da S. Domenico e poi dal suo Ordine, specie in piena Controriforma. Quel giovedì 7 ottobre 1571 segnò un evento storico assai caro ai domenicani, a papa Pio V, domenicano, e a fra Domenico Stradiotti che quelle immagini avrebbe potuto raffigurare ai lati del suo altare dedicato a S. Domenico, il santo celebrato in maniera ossessiva in ogni angolo della chiesa.
Finora, però, nessuno era in grado di sapere che la tela del dipinto ora visibile avesse coperto l'originale strato sottostante (del '600), raffigurante lo stesso personaggio riprodotto in bassorilievo (in cartapesta successivamente deteriorata).
Dopo il recente restauro ("ufficializzato" il 26 ottobre 2006) è stato possibile entrare in possesso di dettagli prima sconosciuti: nei due tondi la qualità della tela e la tecnica della pittura si avvicinano a metodi pittorici dell'800, l'originale nascosto dalla pittura sovrapposta presenta la stessa sagoma coincidente con il ritratto ora visibile. Resta ancora da spiegare la presenza dei vuoti cartigli sottostanti ai due tondi e che molto probabilmente contenevano i nomi e del religioso e del nobile. Non si conoscono le ragioni che hanno indotto all'abrasione sia delle dediche degli Stradiotti negli altri cartigli inferiori sia della probabile intestazione nei cartigli sottostanti ai due ritratti. È possibile che quei personaggi appartengano alla famiglia Stradiotti, cui è sempre appartenuto il patronato dell'altare?
Tra gli uomini illustri della famiglia Stradiotti (già estinta agli inizi del '700), che il Micetti reputava nobile, si annovera un solo sindaco (Leonardo, 1642-3), poi lo stesso Padre Maestro Domenico morto (forse) vescovo di Castro, Carlo della Compagnia di Gesù (vivente nel 1640 e nipote del domenicano) e infine il fisico Maurizio che nel giugno 1703 dettò le sue ultime volontà per completare la "sua cappella" come "pattuito col mastro scultore Giorgio Haver". Chi tra questi è rappresentato nei due ritratti? E perché mai questa esaltazione così eccessiva, quasi una glorificazione che gli Stradiotti fecero di se stessi? Potrebbe sembrare una forzata esagerazione, altrove difficilmente riscontrabile, una superflua celebrazione di un religioso messo di fronte ad un rappresentante laico della stessa famiglia cui appartiene il patronato!
Al momento s'ignora quali fonti documentarie possano sciogliere un dubbio talmente complicato o avvalorare tesi da dimostrare e da verificare. Per intanto, in attesa della verità storica utile ai soli studiosi, non resta altro da dire se non che questo superbo capolavoro, gioiello del nostro tesoro artistico finalmente ritornato al primitivo splendore, rappresenta, per le sue testimonianze, la somma celebrazione del santo spagnolo, dei domenicani e della loro storia, cui gli Stradiotti, per le ragioni enunciate, erano fortemente legati.
Gino SCHIROSI