Uno dei torrioni, detto della Nunziata, lungo le mura che cingevano la città di Gallipoli, si doveva ricostruire, essendo crollato.
Il regio ingegnere della Provincia di Terra d'Otranto, Giuseppe Pagano, in data 12 Novembre 1591, aveva chiesto al Vice Re di Napoli l'autorizzazione per la ricostruzione, avendone la seguente risposta: (traduzione dallo spagnolo): "Magnifico suddetto di Sua Maestà. Per vostra carta del 12 di novembre sono consapevole della necessità che c'è di riparare il torrione che cadde a Gallipoli perché conviene che sia conforme al disegno? con questo lo eseguirete così come gli usi di qui; se sia mestieri qualche altra soluzione me ne avviserete perché la ordini di fare. Dio vi guardi, da Napoli 29 di giugno 1592. Il Conte".
Su tale autorizzazione l'ingegnere Pagano, in data 7 agosto 1592, definì i capitoli "con li quali s'ha da incantare la fabbrica che s'ha da fare per il torrion cascato della città de Gallipoli conforme all'ordine de sua Eccellenza e conforme il regio Ingegnero ordinarà al partitario che pigliarà il partito de suddetta fabbrica terrapieno e ogn'altra cosa necessaria per detto torrione".
In essi fu stabilito che bisognava preparare "ogni cosa necessaria bisognante à detta fabbrica", eccetto la calce che "li sarà data dalla Regia Corte gratis". Il partitario poteva fornirsi di pietre rustiche con "taglio dalli luochi li quali saranno atti per detto servizio e dove per il regio ingegnero li sarà ordinato senza pagamento alcuno"; nulla avrebbe dovuto pagare "al padrone del monte" purchè non si arrecasse danno agli alberi fruttiferi ed ai seminativi, in caso contrario l'appaltatore avrebbe dovuto "pagare quel tanto che da persone esperte sarà declarato".
Il Partitario poteva servirsi di sabbia dove gli sarebbe stato più comodo ed anche "di terra vergine in lochi ordinarij.. senza pagamento alcuno da farsi alli patroni delli luochi".
Se il partitario avesse avuto bisogno di guastatori, zoccatori, carrette e anche barche, gli sarebbero stati dati dalla regia Corte, "pagandole però li detti mastri il giusto prezzo ai padroni di dette carrette, barche e guastatori".
I mastri appaltatori avrebbero potuto far "pasculare libero gli animali li quali serveranno per li detti servizi" in luoghi agresti, ma "facendo danno a seminativi e arbori fruttiferi, siano tenuti al danno e non alla pena".
Se il Partitario non fosse stato di Gallipoli, la Regia Corte "le darà stanzia comoda et essendo cittadino le darà stancia solum per conservatoria de li loro stigli"(attrezzi).
L'appaltatore dei lavori avrebbe dovuto in ogni caso "fare la detta fabbrica buona e perfetta a laude et juditio d'esperti e à contento del regio ingegnere e come d'esso li sarà ordinato", tenendo presente che "la Regia Corte vole che detti mastri facciano il terrapieno che per terrapienare detto torrione" occorreva utilizzare "la terra più perfetta che si trovava all'Isola piccola" e, ponendola in opera, fosse ben pestata; occorrendo acqua durante l'estate i mastri sarebbe stati obbligati ad usarla a loro spese "finchè detto terrapieno venga perfetto".
Facendosi la fabbrica in tempo d'estate, il capitolato imponeva al partitario " a ponere una persona che non faccia altro solo che buttare acqua alla fabbrica che se forma" a cominciare dal 1° giugno fino alla fine di agosto.
I quadroni "de carparo perfetto a ragione di tanto il palmo per quello che sarà", non dovevano essere inferiori a 6 palmi di lunghezza, 3 palmi di larghezza e 1,5 palmi di altezza e l'acqua da utilizzarsi nella fabbrica del torrione doveva essere dolce e "non de salmastra".
Occorrendo far casse per il "pedamento" del Torrione, la spesa sarebbe stata sopportata dal partitario.
Infine la regia Corte avrebbe fatto franco di dazio e gabelle l'appaltatore nel caso non fosse stato cittadino di Gallipoli e gli avrebbe concesso licenza di andare armato, durante i lavori, di ogni genere di armi escluse quelle proibite.
I capitoli d'asta prevedevano inoltre particolari condizioni su l'uso e il deposito della calce, "la battitura dal torrione vecchio" e tutte le altre regole per l'esecuzione ed il pagamento delle opere, per le quali era stato previsto il pagamento anticipato di 600 ducati.
Con tali preinserti capitoli fu emesso bando d'asta per i lavori di ricostruzione del bastione dell'annunzata, che si incaricò di rendere noto il pubblico tubitta (banditore) della città di Lecce, Pietro Corso.
Preliminare all'asta era stata l'offerta fatta dal gallipolino Antonello Damico che si proponeva di eseguire la fabbrica del bastione alle seguenti condizioni: "la canna de la fabbrica, cioè piccola a ragione di carlini 15 la canna da misurarsi vacanti per pieni", come gli sarà ordinato dal regio ingegnere; il taglio di pietra "tanto de piezzi quanto sia tutte sorte di quadrelli"a 6 grana il palmo e la canna piccola per lo terrapieno, "quale canna sarà de palmi cento e vintiotto", a 10 carlini la canna.; "la cannatura de pedamento? a ragione de carlini diciotto".
In seguito all'offerta di Mastro Antonello D'Amico, il 9 agosto 1592, il banditore Pietro Corso, diede avvio all'asta, presso il palazzo di Geronimo de Bazan, regio governatore di Terra d'Otranto, accendendo come prassi una candela.
Parteciparono all'asta: Matteo de la Ragione, con l'offerta di 14 carlini la canna, e confermando gli stessi prezzi dell'offerta D'Amico; Mastro Paduano Baxi di Lecce con l'offerta di 13 carlini la canna; Mastro Alessandro Saponaro di Lecce con l'offerta di 12 carlini la canna e 5 grana per il taglio; Antonello D'Amico con un'offerta complessiva inferiore di 110 ducati.
Alessandro Saponaro ribassò l'offerta di cento ducati, Padano Baxi ridusse l'offerta di ulteriori 90 ducati e Angelo Spalletta di 100. Tutti i partecipanti all'asta si inseguivano con offerte al ribasso, uno sull'altro. Angelo Spalletta offrì dapprima un ribasso di ulteriori 100 ducati cui Paduano Baxi aggiunge ulteriori ducati 90, Angelo Spalletta ducati cento, Matteo de la Ragione ducati 50 e mastro Antonello de Amico 20 ducati. Sull'ulteriore ribasso di 50 ducati offerto da mastro Matteo de la Ragione, Alessandro Saponaro offrì ulteriori 200 ducati cui seguì immediatamente l'offerta ulteriore di 80 ducati da parte di Allegranzio Bruno.
Su tale offerta, in assenza di ulteriori ribassi e spentasi la candela, i lavori di ricostruzione del torrione dell'Annunziata vennero assegnati definitivamente a mastro Allegranzio, sulla base dell'originaria offerta di Antonello Damico, in ragione di carlini 12 la canna e il taglio in ragione di carlini 5 il palmo. Con la precisazione, però, dello stesso mastro Allegranzio, di aver partecipato all'asta anche a nome di Angelo Spalletta e di Angelo Bischetmi.
Autorizzazione regia, capitoli d'asta redatti dall'ingegnere Pagano ed asta ad estinto di candela, sono contenuti nell'atto rogato l'11 agosto 1592 dal notaio Lucrezio Perrone di Lecce, davanti al quale si erano costituiti i tre appaltatori da una parte e dall'altra Alessandro Vadacca, del regio ufficio di scrivania della Provincia di Terra d'Otranto e l'ingegnere Pagano.
Nell'atto i detti mastri accettavano l'opera di ricostruzione del torrione ai prezzi stabiliti nell'asta e per la somma complessiva di ducati mille, impegnandosi a dare idonea cauzione a favore della regia Corte e a rispettare tutti i patti e condizioni stabiliti, a pena di una sanzione di 50 once (300 ducati).
Il 25 febbraio 1593, rogante il notaio Giovanni Pietro de Mitri di Gallipoli, assistito dai testimoni abate Michele Alemanno, Giacomo Corciulo e Placido Crisigiovanni, il maestro Allegranzio Bruno di Nardò dichiarava, anche per conto del maestro Angelo del fu Paolo Bischetmi di Gallipoli e del mastro Angelo Spalletta di Nardò, di ricevere da Diomede Carrafa regio Collaterale generale del regno e per esso da Paolo Grillo reggente l'ufficio del regio Percettore della Provincia di Terra d'Otranto e precisamente dalle mani di Giovanni Pietro Patitari, l'acconto stabilito, secondo l'assegnazione dell'11 agosto 1592, pari a ducati 600.
In quell'atto, rogato in Gallipoli nella casa di Galeotto Spinola sita "invicinio de le Beccarie iusta domos heredis quondam magnifici Hieronimi Sansonetti", mastro Allegranzio, per maggiore cautela della Regia Corte, offriva come garanti della somma ricevuta, Pompeo, Giovanni Pietro e Simone Occhilupo di Gallipoli, il mastro Giacomo de Amato di S. Pietro Galatino e Giovanni Bernardino Verdesca di Copertino.
Giovanni COSI