Incontro con Enrico Tricarico, giovane musicista gallipolino, dal cognome illustre.
Qual è il tuo percorso artistico?
….ho iniziato gli studi musicali presso la scuola media Filippo Briganti qui a Gallipoli con la prof.ssa Miriam Caputo e successivamente mi sono iscritto al conservatorio di Bari dove mi sono diplomato in pianoforte col M° Pierluigi Camicia, conseguendo anche la laurea in “Discipline musicali” e il master in “Nuovi e antichi linguaggi compositivi”. Il primo recital pianistico l’ho eseguito quando avevo 16 anni, abbastanza giovane se penso che ho iniziato a conoscere la musica a 12 anni. Non ho avuto esperienza solo nella musica classica, ma ho anche suonato fino a qualche anno fa con un noto gruppo di musica etnica salentina e da poco ho formato il trio “Artango” dedicando repertori ad Astor Piazzolla e al classico tango argentino. Da cinque anni studio composizione col maestro compositore e organista Biagio Putignano.
Però sei anche organista nella Basilica Cattedrale S. Agata qui a Gallipoli.
Si, certo. Ho seguito il corso di organo sempre al conservatorio di Bari frequentando anche le attività musicali, se pur per un breve periodo, presso la Cappella Sistina in Vaticano, ma mi ritengo un autodidatta perché suono l’organo da quando suono il pianoforte. Il modo di improvvisare e accompagnare i canti di assemblea nelle celebrazioni liturgiche l’ho mutuata dalla conoscenza e dalla pratica dei corali di Bach. Questo modo barocco di suonare dà colore e profondità trascendentale al testo che si canta. Il canto e la musica diventano così una simbiosi magica.
In Cattedrale c’è l’unico organo storico ancora in attività.
Ed è pure un po’ scordato. Comunque mi sono prodigato affinché, tra breve, iniziassero i lavori di restauro di quest’organo insieme a quello della chiesa di S. Francesco d’Assisi e del Santuario della Madonna del Canneto e, probabilmente, fra tre - quattro anni quelli delle chiese del Rosario e delle Anime. Sono restauri importantissimi dal punto di vista culturale e artistico in virtù del fatto che c’è una crescita molto interessante dei concerti d’organo in ambito nazionale di cui arriva un’eco molto forte nel salento. Inoltre è anche suggestiva la presenza di un’ organo antico nelle liturgie.
Porti il nome di un compositore Gallipolino del XVII sec.: Giuseppe Tricarico….
Si tratta di un illustre compositore entrato a buon merito nella storia della musica, le sue sperimentazioni sono entrate nella prassi esecutiva e compositiva di quel tempo ed ha influenzato altri compositori come Stradella, Piccinni e Paisiello. Quest’ultimo pare abbia studiato anche nel conservatorio di Gallipoli, di cui se ne è persa la memoria, aperto proprio dal figlio di Giuseppe Tricarico. Il meridione d’Italia, nel XVII e XVIII sec., era molto vivace musicalmente parlando, e Gallipoli, come il Salento, ha prodotto opere e artisti sulla scia della scuola napoletana, e proprio Napoli contava ben sette conservatori essendo allora la seconda città d’Europa dopo Londra. Giuseppe Tricarico ha dato tanto lustro alla nostra città in quanto musicista alle corti di Napoli, Parma e Vienna.
Hai qualche idea per ricordare la memoria di Giuseppe Tricarico?
In quanto direttore artistico dell’associazione musicale-culturale S. Cecilia di Gallipoli ho in mente di creare degli eventi in memoria di Giuseppe Tricarico, ma per ora non ne parlo, dico solo che ci saranno concerti con musiche di questo autore insieme ad altri del suo tempo e concerti di musica contemporanea. Sarà una sorpresa…
Prediligi il pianoforte o la composizione?
Tutti e due, il pianoforte è il mio strumento, ma la composizione comunica il proprio essere, il pensiero, le idee. Le opere lasciano il segno di se stessi e il proprio DNA, sono come creature che vivono poi autonomamente nel tempo e nello spazio dell’esecuzione.
Riguardo la tua attività di pianista?
Mi sono piazzato ai primi posti in vari concorsi pianistici come a Lamezia Terme, Osimo e Teramo dove sono risultato vincitore assoluto. Ho all’attivo un bel po’ di recital e tra gli altri ho tenuto concerti anche a Roma suonando in prima esecuzione assoluta varie composizioni e un’opera multimediale per pianoforte, attori, balletto e musica elettronica.
E quella di compositore?
Ultimamente la mia musica è stata molto eseguita, anche in sede d’esame nei conservatori. La camerata musicale salentina dedicò un concerto monografico alla mia musica, al festival Urti - Canti si eseguì un mio quartetto d’archi alla presenza di grandi nomi della musica di oggi, suscitando tanto entusiasmo. Alcune mie composizioni sono edite dalla casa editrice Eurarte ed è in fase di registrazione un disco con mie musiche, adesso stiamo registrando l’ultimo lavoro: le “Mediterranean folk songs” per clarinetto, tamburello, chitarra, voce femminile, fisarmonica, viola e violoncello con l’ensemble dell’orchestra della Magna Grecia e la voce di Enza Pagliara, sono sette brani di altrettanti paesi che si affacciano sul mare Mediterraneo di cui ho preso delle melodie rappresentative e le ho inserite in un contesto musicale molto personale senza tradire l’autenticità delle caratteristiche originarie di ogni paese. L’ultima esperienza musicale, invece, l’ho fatta alla biennale di Venezia.
Segui uno stile in particolare?….
In realtà non scrivo un solo linguaggio musicale ma esploro diversi stili a volte anche comparandoli, è il mio modo di pensare, per adesso, la contemporaneità nella globalizzazione di oggi.
Quali sono state le idee ispiratrici per la composizione dello Stabat Mater ?
Entrare in questi meandri analitici senza una partitura come riferimento è arduo, per cui non esporrò abbastanza delle soluzioni applicate. Diciamo che per prima cosa in questo lavoro salta fuori una costellazione di archetipi riguardanti le nostre tradizioni. È un lavoro moderno, con alcune soluzioni originali e personalissime, ma allo stesso tempo racchiude al suo interno dei passaggi dichiaratamente classici proprio per non rompere quello che di radicato c’è nella nostra cultura e nei nostri archetipi. L’attenzione per gli archetipi mi ha fatto concentrare sulla costruzione della forma, che a mio avviso ha gli aspetti più interessanti. La forma dello Stabat Mater è a chiasmo cioè una cellula centrale apre specularmente la composizione a macchia d’olio. Ogni cellula ha un principio di invarianza ossia una capacità di fornire, da sola, una certa quantità di informazione ingigantendo la composizione in una logica frattale, vuol dire che il micro e il macro è costruito allo stesso modo creando il fenomeno di autosomiglianza. La cellula centrale della composizione, la prima pietra racchiusa nel mezzo come oggetto prezioso, è l’archetipo più importante, è quel fenomeno che rimanda alla memoria dello squillo della tromba (suono) e del rullo del tamburo (rumore) davanti alla processione dell’Addolorata che apre i riti della settimana santa, questo differenziale crea una vera e propria tensione ed energia dilatandola verso le estremità della composizione. La dinamica della diffusione del suono nello spazio, oltre che della sua struttura interna, diventa metafora formale, un esempio: la composizione si apre con un crescendo e un accelerando di tutti i parametri del suono fino ad un livello di massima entropia secondo una curva logaritmica che è la legge di espansione del gas applicata al suono. Il finale invece è un happening aleatorio dove avviene un fenomeno, per intenderci, simile ad una partita a scacchi cioè si ha il controllo totale dei pezzi mentre il gioco si può combinare in infinite possibili soluzioni. In alcuni momenti la tessitura del discorso musicale viene asincronizzata letteralmente con disegni geometrici sulla partitura sezionata con misure di tempo differenti. E poi il silenzio. Ad un certo punto dell’ascolto, dopo un lento crescendo, l’ascoltatore si trova improvvisamente di fronte ad un lungo silenzio che lo contempla intensamente poiché, parallelamente, preparato da un crescendo del livello di attenzione. L’assenza di suono così è emozionante, trascendentale, perfetto. Il silenzio per me significa spiritualità perché cela la grandezza di Dio impronunciabile con le parole e con i suoni. Richiami al Preludio che precede lo Stabat Mater (suddiviso in tre parti come metafora della Trinità), citazioni gregoriane, recitativi del coro, un lungo e meditativo assolo del soprano e tanto altro credo abbiano ancora di più arricchito con un senso di imprevedibilità la costruzione artistica dell’opera. L’organizzazione compositiva non è mera teatralità intellettualistica o scientifica ma è un’ossatura, una culla su cui poggia il testo profondo dello Stabat Mater, dialogato fra soprano e coro come una poesia di cui la musica ne è un’ amplificazione semantica.
In quanto tempo l’hai scritta?
Un mese.
Come hai affrontato questa preparazione…il coro?
Ho preparato questo lavoro con molta tranquillità e ringrazio ancora la confraternita di Maria SS. del monte Carmelo che mi ha dato fiducia nella realizzazione di questo evento. Il coro non essendo formato da professionisti comunque è andato molto bene e splendida è stata la loro sensibilità per questa manifestazione.
Cosa è l’ispirazione, e la tua idea di musica?
L’ispirazione non so se esiste, certamente bisogna stare molto attenti per mettersi sulla buona strada delle scoperte e bisogna essere capaci di inventare qualcosa. Oggi nell’arte, e non solo, come diceva Calvino, non esiste un contenente e un contenuto, ma solo uno spessore generale di segni sovrapposti, questo spiega come mai nell’arte di oggi esiste tutto e il contrario di tutto, che poi è una metafora del mondo contemporaneo, perciò credo che una nuova etica debba coniugarsi necessariamente con una nuova estetica. Nei miei lavori uso anche mezzi antichi a partire da pratiche barocche o da pratiche medioevali come la talea, ma li considero strumenti che debbano intarsiare un nuovo materiale musicale o per lo meno una nuova idea di musica. La musica è l’arte di articolare il tempo dandogli forma. E’ facendo una sintesi dello spazio e del tempo che si crea una forma, e la forma è il passaggio da un assenza di struttura alla presenza di struttura come immediata oggettivazione della volontà, anche quando si improvvisa estemporaneamente. Io credo che lo spazio sia un incidente del tempo, e non una forma di intuizione. Per cui esiste lo spazio acustico dove realmente avviene il fenomeno musicale, inteso come luogo di drammatizzazione del suono, e poi esiste lo spazio della memoria, lo spazio psicologico. L’ascoltatore è inteso come essere umano con caratteristiche cognitive di percezione psicoacustica ben precise, è colui che si dà un’idea del tempo e se lo rappresenta in un certo modo. Allora i richiami a ciò che è stato e la ridondanza costituiscono quel “teatro della memoria” in cui le forme si danno forma. Per me l’affiorare di questi archetipi è determinante per una composizione. Agli archetipi dò anche dei significati simbolici che celano, a volte, una interpretazione cabalistica. Questa interpretazione si cela anche nello Stabat Mater come anche mutua una dimensione temporale tipica del pensiero orientale per me molto affascinante. La cultura incide in maniera decisiva per quanto riguarda la percezione del tempo. Gli orientali passano con estrema facilità da una dimensione temporale ad un'altra, da un tempo mobile ad un tempo immobile. La musica occidentale, invece, è una musica che nella sua storia ha privilegiato il concetto di sviluppo del materiale, che tende ad essere il più possibile virtuosa in velocità e forza. La nostra è una visione narrativa, centrifuga mentre quella orientale è riflessiva infatti è spesso legata a forme di meditazione, oppure a forme di tipo molto particolare ed estremamente simbolico, dove il tempo dell'azione è molto più lento, quasi analitico. Basta pensare al nirvana, allo zen, allo yoga, al raga indiano o alle arti marziali orientali così diversi dal pugilato tipicamente occidentale. In genere si pensa la musica come una successione aggiuntiva di piccoli elementi, come lego che costruiscono un oggetto, a partire da un tema, da uno spettro armonico o da qualsiasi materiale come anche avviene nelle basi ritmiche della musica commerciale, tecno o house. Ma si può avere il negativo di questo, una sorta di scomposizione, cioè costruire il brano a partire da una grossa matassa sonora come oggetto da scavare fino a far emergere l’idea musicale. È l’unico modo questo per non avere un’idea massiva della musica e ad avvicinarsi al silenzio come vero e proprio parametro. Uso spesso la forma a chiasmo com’è lo Stabat Mater, paragonabile in un certo modo al gioco delle scatole cinesi ossia tante scatole una dentro l’altra. Questi “recipienti” sono le forme che formano la musica che con la sua arte materica racchiude o meglio possiede il silenzio così come il nostro corpo possiede la nostra anima. Nella mia composizione “I colori del silenzio”: Preludio, Preghiera e Fuga per pianoforte, ho approfondito questo tema. Qui il suono si confonde in atmosfere delicatissime col silenzio disegnando nello spazio acustico e della memoria architetture, linee, punti e superfici con la materia dei campi armonici che attraversano diverse finestre di tempo, questo percorso è fatto in modo che nasca dal nulla anche il linguaggio stesso, come inventare una grammatica che poi si trasforma in varie lingue. Ritornando alla forma Michelangelo Buonarroti aveva un’idea simile se rapportata alla scultura. Di un blocco di marmo toglieva il superfluo per far emergere la figura che già aveva prefissato nella sua mente prima di iniziare il lavoro. A volte lasciava il lavoro incompiuto per far notare meglio quest’idea compositiva e ne uscivano figure di un dinamismo impressionante paragonabili a scene cinematografiche fossilizzate nella pietra. Michelangelo è uno dei pochi artisti che, nonostante sia storicizzato, è considerato ancora attuale per la sua modernità. Credo che la composizione non sia un’ arte che ha a che fare solo con i suoni in senso stretto, se così fosse diventerebbe un’ esercizio di classe, magari anche fatto bene. Credo invece che la composizione e l’essere musicista debbano essere una ricerca su tutto ciò che concerne la vita.
L. G.