Nuovi documenti sulla condanna dell'opera del poeta gallipolino
Nell'ambito dell'ampia e variegata discussione storiografica in tema di censura libraria, tra i vari approcci tesi alla ricostruzione globale del funzionamento degli apparati censori, quello volto all'analisi dei dibattiti per la definizione dello statuto dei volgarizzamenti ha indubbiamente consentito, più di tutti, di delineare “una cartina di tornasole non soltanto delle dinamiche ai vertici della Chiesa, ma anche delle strategie adottate dagli uffici centrali per controllare le menti e le coscienze” (G. Fragnito). Nello specifico, e relativamente ai contributi più recenti, rispetto a questa problematica, indicazioni importanti per la ricerca sono di certo quelle emerse dagli ultimi lavori di Gigliola Fragnito, finalizzati alla ricostruzione delle strategie adottate dalla Chiesa cattolica, attraverso l'uso del latino, per limitare l'accesso dei credenti alle questioni teologiche più delicate. In particolare, fondamentale, per la ricostruzione dei tempi e delle modalità dei provvedimenti censori adottati da Roma nella sua radicata avversione nei confronti della poesia, si è rivelato l'ultimo lavoro monografico della studiosa (Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima età moderna, Bologna 2005), che esamina, tra l'altro, oltre all'“aggrovigliata matassa dei divieti”, anche i vivaci dibattiti, avvenuti tra Cinque e Seicento, intorno al problema, con particolare attenzione a quelli svoltisi in seno alla Congregazione dell'Indice.
Al centro di questo intervento è, pertanto, lo spinoso problema della diffidenza, da parte della gerarchia ecclesiastica, verso la poesia, suscitatrice di passioni e seminatrice di corruzione, e l'ostilità della stessa verso la “petulantia” dei poeti e la commistione di sacro e profano. Con il pretesto di salvaguardare i “semplici” da pericolose derive eterodosse e da trasgressioni morali, i censori avevano esteso difatti il loro controllo anche su scritti che godevano di larghissima fortuna, come le versificazioni di argomento religioso (tanto nelle lingue vernacolari, quanto in latino), opere scritte per la gran parte in ottava rima e che si prestavano facilmente ad una facile memorizzazione.
In relazione a tali pluriennali discussioni intorno alle versificazioni, ed alla necessità di frenare la “petulantia” di molti “i quali, abusando della licenza poetica, mescolano le cose profane con quelle sacre” (Fragnito), la vicenda relativa alla condanna del poema sacro Maria Concetta dell'ecclesiastico gallipolino Giovanni Carlo Coppola – concreto esempio della riluttanza della Chiesa a divulgare il sapere cristiano in poesia e, specie, in lingua volgare – offre di tutto ciò diretta testimonianza.
Il Coppola, “la di cui memoria è rinomatissima tra gli Ecclesiastici, e letterati”, era nato a Gallipoli probabilmente nel 1599 da una famiglia della media borghesia. Aveva compiuto i primi studi di retorica, filosofia e teologia nella città natale e trascorso il resto della giovinezza a Napoli, dove ebbe modo di dimostrare le sue capacità poetiche, la preparazione classica e filosofica, e “ove fra i molti personaggi che lo distinsero, vi fu il Viceré del Regno Duca di Ossuna, nella di cui presenza improvvisò egregiamente, e lo trattenne seco nel Real Palazzo col titolo di Poeta della Corte” (B. Ravenna). A Napoli conobbe Tommaso Campanella condannato all'ergastolo per aver ordito la rivolta calabrese e qui rinchiuso nelle varie fortezze di Castel Nuovo, Sant'Elmo e Castel dell'Ovo. Quando dal 1618 questi poté scrivere e ricevere visitatori, il Coppola lo frequentò e dopo la scarcerazione lo seguì a Roma, dopo che, nuovamente arrestato dall'Inquisizione, il domenicano di Stilo fu trasferito nelle carceri del Sant'Uffizio. In quella città il Coppola studiò teologia e, “ammirato pel sublime suo verseggiare”, frequentò le Accademie degli Infecondi e degli Arcadi. Si trasferì quindi a Firenze ed alla corte del granduca Ferdinando dimostrò una grande capacità poetica al punto da essere definito “Tasso sacro”; ed inoltre “il Gran Duca di Toscana, sorpreso dalla sublimità, e felicità de' suoi versi, lo salutò col titolo di Gran Poeta, lo volle nel suo palazzo, e gli accordò un onorario”. Oltre al poema sacro Maria Concetta, delle cui vicende di composizione e stampa si parlerà tra breve, in occasione delle nozze del granduca Ferdinando II con la principessa di Urbino Vittoria della Rovere, compose, nel 1637, una favola in versi per musica, Le Nozze degli Dei, rappresentata l'8 luglio in Palazzo Pitti. L'opera, scritta “nello spazio di sette giorni, com'egli notò nella dedica, [...] ottenne il massimo gradimento del suddetto Gran Duca, tanto nella lettura privata, che gliene fece l'autore, che nel rappresentarsi. Fu stampat[a] in Firenze nel 1637 per Amador Massi, e Lorenzo Landi colle figure dello Stafanino in 4o” (Ravenna). Nominato arciprete della collegiata di S. Michele in Terlizzi nel 1640, il Coppola avviò una contesa giurisdizionale con il vescovo di Giovinazzo, Carlo Maranta, per rivendicare il diritto degli arcipreti della collegiata ad indossare vesti ed insegne pontificali. In attesa di risolvere la controversia si trasferì a Roma e qui fu sul punto di essere nominato primo vescovo della istituenda diocesi di Terlizzi. Naufragata l'iniziativa a causa delle difficoltà economiche in cui versava l'Università, Urbano VIII, con la bolla del 18 maggio 1643, lo destinò alla sede vescovile di Muro Lucano, dopo aver traslato Clemente Confetti ad Acerno. In Basilicata il vescovo completò Il Cosmo, o vero l'Italia trionfante (Firenze, Stamperia Granducale, 1650), poema in cui celebrava la famiglia dei Medici, concluse l'ultima sua opera La Verità smarrita, o vero il Filosofo illuminato (Firenze, Amadore Masi, 1651), dedicata ad Innocenzo X, e svolse un'intensa attività pastorale fino alla morte sopraggiunta nel 1652.
Nel 1635, “desideroso di eccitare i Devoti con la gloria del vostro [di Maria] Nome, e non d'allettare i curiosi con l'impiego della [...] penna”, aveva pubblicato il poema sacro Maria Concetta (Firenze, Nesti, 1635), un'opera allegorica articolata in venti canti in ottave, scritta per promuovere la devozione mariana. Nell'epistola ai lettori chiariva trattarsi di un “parto più della mia devozione, che del sapere [...]. La materia in tutto aliena dall'amenità Poetica m'ha tal'hor forzato di essere ardito nelle finzioni, sempre però con quella riverenza, che si deve alla verità, et alla Fede, che inviolabilmente professo di serbare. Ho cercato muovere in questo Poema tutto l'Universo, tutto giudicandolo interessato nella Concezione di Maria”.
Come documentato tra le pagine dell'opera, il 12 giugno di quell'anno, il vicario di Firenze Vincenzo Rabatta commissionò al gesuita Tommaso Antonelli la lettura del manoscritto da pubblicarsi, al fine di “vedere se nella retroscritta Opera si contenga cosa, che repugni alle Apostoliche Constituzioni, e Decreti, alla Pietà Christiana, o buoni costumi”, ricevendo dallo stesso la seguente risposta: “Ho letto per ordine di Monsignore Reverendissimo Vicario la presente Opera; la quale non solamente non contiene cosa repugnante a' Decreti, e Constituzioni Apostoliche, alla Pietà Christiana, et a' buoni costumi, ma è degnissima delle Stampe sì per il Soggetto, di che si tratta, come per l'ingegnose inventioni, che l'abbelliscono, e per la felice grandezza, con cui si maneggiano Misterij altissimi. In fede ho scritto questo, e sottoscrittovi il mio nome questo dì 17 di Luglio 1635”. Il giorno successivo, il vicario, letta la relazione positiva del teologo, ritenne di poter concedere, da parte sua, il “si stampi”, “osservato però li soliti ordini”. Contestualmente, l'Inquisitore generale di Firenze Clemente Egidio procedette all'invio dell'opera al consultore del Sant'Uffizio Girolamo Rosati, protonotario apostolico, affinché “si compiaccia di vedere questo Poema se vi sia cosa repugnante alla stampa; e riferisca”. La risposta del censore, giunta il 1 agosto, non evidenziò alcun motivo di censura, anzi lo stesso riferì di aver letto “con grandissimo [...] gusto [...] questo Poema del Dottissimo Sig. Abate Coppola utilissimo a' Devoti dell'Immacolata Concettione della Santissima Vergine”. Lo stesso giorno l'inquisitore generale fiorentino concesse l'imprimatur definitivo.
I primi sospetti sull'opera furono inspiegabilmente sollevati all'indomani della sua pubblicazione, quando, il 3 febbraio 1636, su mandato di papa Urbano VIII, si riunì la Congregazione del Sant'Uffizio, nelle persone dei cardinali Buccabella e Torniellus, del P. Horatius Iustinianus, dei PP. procuratori generali degli ordini di S. Agostino e dei Carmelitani, del teatino P. Thomas Afflictus, del somasco P. Franciscus Tontolus e di D. Iacobus Accaritius, per discutere del poema e indicare quanto “videtur adnotatione dignum” (questo ed i successivi passi virgolettati sono tratti da documenti conservati nel fondo Sanctum Officium dell'Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede). Le autorità designate misero in evidenza le proposizioni false ed eretiche; i passi censurati, oltre a presentare epiteti inappropriati attribuiti alla Vergine (“quae [...] non congruunt”), riguardavano in particolare la formazione del corpo e dell'anima di Maria, il mistero dell'incarnazione, lo Spirito Santo, i segni naturali e supernaturali e l'intelletto. L'autore veniva “graviter” ammonito per non aver tenuto nel debito conto la Costituzione di Pio V (ordine 114; costituzione poi “innovata” nei decreti di Paolo V e Gregorio XV), “quae incipit Super specula, agit de hac materia vulgari sermone, quod est in dicta Constitutione prohibitum [...] de hac ipsa questione vulgari sermone scribere”. Il 21 febbraio 1636 si procedeva, dunque, alla registrazione della censura ed alla proibizione (“sospensione”) de libro, poi ufficialmente proscritto con decreto del Sant'Uffizio del 9 maggio 1685.
Quello dei libri proibiti sarebbe stato, tra l'altro, un tema su cui lo stesso Coppola, più tardi, e ormai presule a Muro, avrebbe posto interessanti sollecitazioni nel corso del sinodo da lui celebrato nel 1645. Il vescovo, in quell'occasione, avrebbe elaborato alcune norme per controllare la circolazione dei testi non in linea con i principi della Riforma Cattolica e ritenuti capaci di turbare le coscienze. Quanti conservavano libri sarebbero stati invitati a presentare un elenco dettagliato alla Curia; sarebbe stata proibita ogni tipo di discussione sulla fede, vietata la lettura diretta della Sacra Scrittura “praecipue vulgari sermone conversam”, poiché la Chiesa affidava ai suoi arcipreti il compito di predicare nei giorni festivi “cum brevitate, et facilitate sermonis”.
Ritornando, ora, alle vicende censorie, qualche anno più tardi, giungeva al Sant'Uffizio una supplica da parte della Gran duchessa di Toscana, la quale “espone a Vostra Santità come dieci anni sono fece stampare in fiorenza un'opera in lode di Maria Vergine intitolata Maria Concetta, la quale per essere stata molto bella, e molto devota fu accettata da tutti con grande applauso: Ma perché ad Urbano VIII [...] dispiacque il titolo, volendo che si intitoli le lodi di Maria Vergine, restò sospesa, ancorché dopo haverla letta più volte havesse procurato e fatta istanza all'Autore, che volesse mutare il titolo, come è noto a Mons.re Albizi, che ne potrà informar Vostra Santità. Ma perché né a detto Papa Urbano piacque d'intitolar il Poema lodi di Maria Vergine, né all'Autore sovveniva altro titolo, restò così sospeso. Hoggi l'Autore si contenta intitolarlo Maria, togliendone quel Concetta, onde nasceva la dificoltà; supplico Vostra Santità a farmi gratia a compiacersi, che con questo titolo possa liberamente esser letto e ristampato, e se li restasse altra dificoltà, che il detto Autore in prosa la sciogli [...]”.
L'opera, seppur intrisa di un sapere classico e mitologico, fu ritenuta dal Sant'Uffizio meritevole di rientrare nella cernita degli scritti da recuperare, non prima però di averne normalizzato il testo, eliminando formule di fede non corrette o addirittura ereticali. Il consultore incaricato di procedere all'emendazione della Maria Concetta, il cardinale Giustiniano, per il quale fu relativamente agevole individuarvi manifeste eresie, inviò, in originale e in copia, le sue correzioni del 18 febbraio 1647 alla Congregazione, perché fossero da questa esaminate. Gli interventi censori sull'opera del Coppola – recuperati grazie alla preziosa documentazione rinvenuta nell'archivio vaticano del Sant'Uffizio e sulla base del non facile confronto fra le sue due edizioni (la prima, del 1635, e la seconda, quella emendata, del 1649) – illustrano concretamente le devianze segnalate dal censore, mettendone in evidenza le espressioni superstiziose (si rinvia, a tal proposito, al saggio su Libri religiosi e censure in Terra d'Otranto tra difesa della fede e lotta all'eresia (secc. XVI-XVII), pubblicato da chi scrive in D. Levante (a cura di), “Colligite fragmenta”. Studi in memoria di Mons. Carmine Maci, Campi Salentina 2007, dove tali interventi sono integralmente riportati).
Lo scritto, così emendato sarebbe stato poi consegnato, il 13 luglio 1648, dall'arcivescovo di Napoli al teologo e consultore Giuseppe Rossi, per essere rivisto e corretto, “conforme la correttione mandata [...] dalla Suprema, et Universale Inquisitione di Roma”. Così il Rossi nella sua missiva di risposta del 14 luglio 1648: “Eminentissimo, e Reverendissimo Signore. Per ordine di V. E. Reverendissima ho revisto il Poema heroico dell'Abbate Giovanni Carlo Coppola, hora Vescovo di Muro, intitolato Maria Concetta, quale fu prohibito nel 1636. Hora stante la correttione fatta per ordine di N. S. e mandata a V. E. dalla suprema Congregazione del Santo Officio puntualmente è stato da me revisto, purgato, e corretto, et in tal forma liberamente si puol dar licenza, che si stampi, conforme all'ordine d'essa suprema Congregatione. E stampato, che sarà, se doverà da me far il solito confronto con l'originale, e trovando, che concorda con esso, V. E. li potrà dar la licenza di publicarse, et a V. E. fo humilissima riverenza”. Lo stesso giorno, l'arcivescovo di Napoli, “stante supradicta relatione per nostrum Theologum facta”, concesse il nuovo imprimatur all'opera. Parallelamente, sul versante civile, i reggenti Zufia, Casanate, Caracciolo e Capecealtro rilasciarono la licenza di stampa sulla base del parere positivo sull'opera steso dallo stesso Diego Capecelatro.
L'edizione del 1649, pubblicata a Napoli presso il tipografo Onofrio Savio, nasceva, dunque, da un'opera di “purificazione” del testo, dettata dalla più generale esigenza di uniformare la pratica religiosa, espungendo riti e devozioni d'incerta origine, e di disciplinare una devozione “sregolata”, fondata su testi in cui si mescolavano sacro e profano. Testi, la cui natura sfuggente e indefinibile, talvolta più vicina al romanzo cavalleresco che al libro di devozione o di edificazione – in un momento in cui la Chiesa puntava a una formazione religiosa dei fedeli basata su forme di indottrinamento collettivo gestite dal clero e mirava a un rigido controllo delle credenze e dei comportamenti –, non poteva non suscitare l'apprensione dei tutori della fede e della morale.
Milena SABATO