Il V° centenario del “De Situ Iapygiae” di Antonio Galateo (1507-2007)
La Iapigia dell’umanista concittadino Antonio Galateo De Ferrariis compie cinque secoli, essendo stata composta nel 1507, come dimostrano gli studi e le ricerche del professor Domenico Defilippis autore dell’importante edizione dell’opera galateana, l’ultima in ordine cronologico, pubblicata presso Congedo nel 2005. Anche chi vi parla ha avuto modo di curare in passato tre edizioni(nel 1975, 1995, e 2004), l’ultima tri-lingue con traduzione in italiano del prof. Nicola Biffi dell’Università di Bari, mentre quelle in inglese e tedesco sono dovute, rispettivamente, alle dottoresse Caterina Colomba e Anna Maria Pisanelli.
Sarà Defilippis a parlarvi in modo specifico dell’opera e dei suoi contenuti nel contesto della letteratura coorografica ed umanistica, della sua originalità e dei suoi debiti letterari, delle peculiarità del Salento come regione, antropologiche, storiche, geografiche, ambientali, culturali, sociali, economiche.
A me il compito più modesto di inquadrare nel tempo il nostro autore e il nostro territorio, in un più vasto ambito provinciale, che vuole privilegiare e mettere a fuoco il rapporto tra l’uomo e la sua terra, il triangolo Galateo- Galatone -Salento.
Galateo scrive agli inizi del ‘500 per raccontare di una terra decaduta ed aspra, ma amabile, generosa, con i suoi piccoli borghi tranquilli e operosi, ricca di tradizioni culturali e religiose, abitata da genti miti e costantemente fedeli al proprio re, come gli otrantini e i gallipolini i quali si opposero eroicamente agli invasori turchi e veneziani nel 1480 e nel 1484. Una terra anche piena di contraddizioni, dove il lento tramonto della civiltà magnogreca di Taranto, e delle tradizioni religiose e culturali greche, ivi in auge e segnatamente nella nativa Galatone( rinomate le sue concelebrazioni liturgiche dell’Epifania e dell’Assunta) ad opera di famosi teologi e grecisti, viene in qualche misura ad attenuarsi grazie alla politica promettente di nuovi statisti e signori, fra i quali il nuovo uomo forte del viceregno spagnolo,Giovan Battista Spinelli conte di Cariati, e il duca di Nardò, Belisario Acquaviva, uomo colto e di grandi aperture, amico ed umanista, che ha fondato l’Accademia del Lauro, che medita di recuperare le antiche terme di Santa Maria al Bagno, e si sta prodigando per fare di Nardò una città proiettata verso la modernità.
La Iapigia, pertanto, è anche la prima grande rappresentazione del territorio, dei suoi fenomeni(il tarantismo, i miraggi neretini, la sgradevole presenza di serpenti , tarantole, bruchi) delle sue tipicità economiche, in particolare i prodotti agricoli color dell’oro di cui abbondano tuttora le campagne galatonesi(e neritine) dallo zafferano al cacio, all’olio, al vino, al miele, l’uva passa, i fichi secchi. Le tre province di Taranto Brindisi e Lecce, anteriormente alla disgregazione politico-amministrativa attuata dal Fascismo hanno costituito politicamente e geograficamente la Regione Iapigia, ossia la Terra di Galateo, come recita il titolo di un libro di Pietro Marti, bibliotecario provinciale, pubblicato nel 1931, e un mio videofilm che risale a quasi venti anni fa. In soldoni la Iapigia galateana comprendeva la penisola salentina bagnata, da un lato dal mare Ionio, e dall’altro dall’Adriatico.
E’ una descrizione che ammoderna e aggiorna il panorama della corografia, e correggendo dati non più del tutto attendibili, alla luce delle recenti scoperte geografiche e dell’America in particolare, come giustamente scrive e vi dirà Defilippis, senza dimenticare che Galateo era del ristretto stuolo di amici e cortigiani che argomentavano spesso alla corte aragonese su interessi geografici assai cari allo stesso Re Federico.
Ma è, soprattutto, un rapporto che tornava utile ai viceré spagnoli di Napoli, dopo l’assestamento delle cose del regno, e segnatamente ad un potentissimo uomo di potere, della caratura di Giovan Battista Spinelli, che glielo aveva commissionato. Spinelli, un punto di forza dell’establishement del viceregno di Napoli, appena conquistato dagli spagnoli, aveva interesse a che Re Ferdinando il Cattolico potesse disporre di un quadro di conoscenze indispensabili ad impostare una adeguata attività di governo sui nuovi domini, le nuove terre acquisite alla corona di Spagna .
Nella laudatio della Iapigia l’umanista di Galatone individua le reliquie di un passato che ancora non è morto del tutto : <<Infine la terra iapigia sorprendentemente atta ad ospitare insediamenti umani. Infatti, pur se si presenta aspra nella dorsale interna, vi troverai, dove si apre all’aratro, zolle assai fertili; e sebbene sia povera di acqua, nondimeno dispensa lieti pascoli e si offre alla vista ricoperta di alberi. Anche questa regione una volta fu densamente popolata e ospitò tredici città; ora, però, eccetto Taranto e Brindisi, le altre città non sono che minuscole borgate, tanto son decadute >>.
Una regione che << quantunque ora svigorita e decaduta, tuttavia(… ) è considerata bellissima e fra le più amabili>>, tanto che l’umanista la chiama carezzevolmente insularum omnium peninsularumque ocellus , perla di tutte le isole e le penisole.
Si sente la stessa tenerezza affettuosa di Orazio, anche se, diversamente dal poeta di Venosa, che sognava quel cantuccio ridente, quale approdo ultimo della sua vecchiezza, lo scrittore salentino registrava sul posto, e dal vivo, la situazione della sua terra, colmi il cuore e la mente di amarezza e di delusione, all’indomani della fatale svolta militare e politica che era costata la perdita del trono e l’esilio in Francia all’amico re Federico, ed a lui G. un rimpatrio non proprio desiderato.
E’ un viaggio di carta, da Taranto giù giù lungo la costa ionia fino a Leuca, da qui per la costa adriatica fino a Brindisi, che quindi punta all’interno su Manduria e Oria, e prosegue per Lecce, Galatina, Vaste Muro Ugento, nella Galatone nativa, e finalmente a Nardò.
Niente di più riduttivo che voler considerare questo itinerario classico semplicemente una stringata illustrazione delle località salentine visitate, con sobri cenni alle loro caratteristiche e peculiarità, atti ad attrarre l’occasionale visitatore; uno specimen di guida turistica cinquecentesca. Il De Situ è sicuramente tutto questo, ma è anche – come sottolinea Defilippis, -“un’opera dalla struttura complessa, che programmaticamente ambiva a gareggiare con i modelli antichi, e segnatamente con la Geografia di Strabone (…..) un’opera, insomma, dal sicuro taglio letterario che si imponeva per l’accuratezza espositiva, lo stile raffinato e la novità dei contenuti”.
Va anche detto che la scelta di illustrare un pezzo di territorio di ampiezza limitata e, per giunta, ben noto, come la piccola patria in cui si è nati e vissuti si configurava anche come un antidoto alle inquietudini e al senso di smarrimento prodotto dalle nuove scoperte, sicché perlustrare questo estremo lembo d’Italia quasi del tutto dimenticato, era come un tornare alle radici, un recupero, sul filo della memoria, del senso della propria identità etnica ed etica, un ritorno alla sicurezza delle proprie origini, messa in forse dalle recenti scoperte geografiche.
Così al di là dell’esaltazione delle glorie e dei prodotti locali, il De Situ rispecchia, con l’ethos particolare dei salentini , ultimi testimoni e custodi gelosi della civiltà greca, l’anima più autentica e più vera della regione iapigia, in uno slancio di rivalutazione e di riscatto dalla ingiusta emarginazione di questo amato “estremo angulo Italiae” . Una rivalutazione che l’umanista può realizzare, esplorando la Iapigia col gusto della ricognizione archeologica, e facendo emergere, col conforto autorevole degli autori classici, la memoria storica di matrice greca che i secoli avevano corroso e l’imbarbarimento e la decadenza dell’età di mezzo, irrimediabilmente offuscato e sommerso nell’oblio.
L’autore dà quindi inizio all’itinerario locorum, prendendo in esame, secondo il collaudato modello di Stradone, dapprima le località site in riva al mare, quindi quelle dell’entroterra, di ognuna indicando le coordinate fisiche e topografiche e, dove dispone di fonti attendibili, rievocando le vicende più importanti della loro storia antica e recente.
Questo tour ideale nella patria degli avi e nella culla della propria cultura abbraccia l’intera penisola salentina - il Salento storico – partendo da Taranto e concludendosi a Nardò , attraverso una serie di tappe intermedie in grossi agglomerati urbani come Lecce o Brindisi, in piccoli centri particolarmente cari all’autore, quali la nativa Galatone, in luoghi simbolo della resistenza eroica, civile e religiosa, dei salentini, come Gallipoli e Otranto, in famosi monasteri depositari di preziosi testi classici, (S. Nicola di Casole e S.Nicola di Pergoleto), attraverso una natura a tratti arida, ma sempre munifica e rigogliosa per il millenario lavoro dell’uomo che in queste contrade si armonizza con la clemenza del clima e la feracità del suolo.
Siccome, come detto innanzi, l’autore ha a cuore il recupero dei fasti dell’antichità magno-greca, il viaggio non può che cominciare da Taranto il cui splendore antico è l’emblema della più alta espressione della civiltà ellenica in Italia.
Della città bimare, pescosa e ubertosa, G. descrive la posizione arcigna di isola di forma ovale circondata dalle acque, con mura solide e possenti, il canale artificiale fatto scavare di recente dal Filomarino, i ponti che collegano la città al continente. Illustrarono Taranto Archita, Icco, Aristosseno, e la città visse secondo le tre forme di governo classiche in auge presso i greci- monarchia, aristocrazia, democrazia - finché decadde a causa del lusso sfrenato e delle mollezze , anche al presente cause della degenerazione della società da cui non si salvano neanche i principi della Chiesa, i quali non più accontentandosi dei legumi e dei pesci di scarso pregio delle origini, sono diventati avidi e insaziabili accumulatori di ricchezze.
Proseguendo verso sud, gli viene incontro la marina ridente di Saturo che verdeggia di agrumi e fichi e melograni, quindi S.Pietro in Bevagna, presunto luogo dell’approdo di San Pietro, Cesarea porticciolo pescosissimo, S.Isidoro vetusto scalo di Nardò, S.Maria al bagno abbandonata per la paura di pirati e saraceni, dove registra la presenza di ruderi di antiche terme che l’amico Belisario Acquaviva, signore di Nardò, medita di restaurare.
Un po’ più a sud eccolo giungere a Gallipoli, la gentile città greca che galleggia come una gigantesca padella sull’ azzurro del Ionio, i cui abitanti hanno scritto pagine memorabili di resistenza contro Carlo I d’Angiò nel 1269, contro i veneti invasori nel 1484, e recentissimamente a difesa dagli attacchi dei francesi di Carlo VIII e degli spagnoli di Consalvo di Cordova, sotto la guida esperta di Marco Antonio Filomarino e di Giovanni Castriota. Purtroppo questi eroismi periferici dei gallipolini e di tutti i salentini, colpevoli di abitare questa estrema periferia italiana, vengono ignorati sistematicamente e affogati nel silenzio e nell’oblio, diversamente evidenzierebbero l’infedeltà e la disaffezione dai principi di molte altre genti italiche.
Ecco il viaggiatore a Leuca,sulla punta bianca del Meliso, a Castro allora sede di vescovato con rocca alta sul mare, Santa Cesarea già rinomata per la salubrità delle acque e per la grotta in cui la santa giovinetta, che dà il nome al posto, trovò scampo sfuggendo alle turpi voglie del padre.
Badisco, mitico approdo del troiano Enea e poco più oltre il cenobio basiliano di S.Nicola di Casole, celebrato centro di cultura e di studio, e soprattutto di conservazione di codici greci rari, annunciano la città sacra di Otranto, famosa per l’eccidio turchesco subìto nell’agosto 1480, che la rese spianata e desolata. Il sacrificio degli otrantini, fra i quali il consanguineo arcivescovo Stefano Agricoli Pendinelli, gli detta una pagina vibrante di fede, eroismo e fedeltà, e G. ravvisa nella stessa morte di Maometto II un chiaro segno della Provvidenza per porre fine all’occupazione turca e così facilitare la liberazione d’Italia, e la salvezza della civiltà cristiana.
Da Otranto il nostro prosegue lungo il litorale adriatico con soste ai laghi Limini, a Roca e ai suoi poetici anfratti scavati dal mare, al robusto molo di San Cataldo costruito da Maria d’Enghien, quindi a Brindisi, città un tempo florida e popolosa, ora resa malsana e quasi deserta dalle guerre e dall’inclemenza del clima, ma anche dalla negligenza dei brindisini che avevano reso possibile un ambiente invivibile ed ostruito e reso inagibile il loro porto.
Lasciata Brindisi, il nostro volge verso l’interno, all’incirca da Nord a Sud, attraversando alcuni centri dei quali riferisce i momenti più significativi della loro storia, o presenta eccezionali reliquie monumentali, con rapidi schizzi di personaggi amici e in qualche modo protagonisti delle ultime vicende aragonesi . Segue un percorso che muove da Oria irsuta, che domina dall’alto sul suo castello svevo, tocca la Manduria dalle poderose mura messapiche, la campagna di Valesio, tagliata dai resti della via Traiana, a poca distanza dalla sua villetta sita in territorio di Trepuzzi, l’abbandonata abbazia basiliana di Cerrate, poi le rovine della Rudiae del poeta Ennio, ridotta ormai ad un esteso oliveto di cui è proprietario il genero Giovan Paolo Drimi.
Lecce, dove ha famiglia e amicizie importanti, e dove morirà il 12 novembre 1517, vanta vicende storiche notevoli che lo intrigano anche direttamente, ma egli non ha tempo e voglia di perdersi dietro ricostruzioni di fatti mitologici cui crede poco, bensì gli avvenimenti di epoca romana e medioevale, e le amichevoli conversazioni con i sodali del circoletto accademico di Gerolamo Ingenio; la città è turrita e pensile ma non abbastanza sicura, con i suoi caratteristici edifici di pietra tenera e bionda, circondata da selve di olivi, vigneti, e orti. Eccolo velocemente a Soleto, dove si accorge dei resti delle mura ma non della guglia arabescata del Colaci, quindi nella greca Galatina, che annovera personaggi di spicco, lo splendido tempio orsiniano di S.Caterina ed un ospedale per i pellegrini, poi a Muro, nella necropoli di Vaste, madre della prima misteriosa iscrizione a caratteri messapici, quindi fra i resti di Montesardo e di Vereto; risale poi per la poseidonia Ugento e da lì raggiunge la nativa Galatone.
Ed è qui, più che altrove, che i ricordi si fanno struggenti e affilati, come è giusto che sia, prendono a morderlo alla vista della chiesina di S.Giacomo con i libri greci di suo nonno e l’attigua casa a corte dei De Ferrariis, i racconti dei sacerdoti di rito greco(fra gli altri il prozio Giorgio Latino e Virgilio de Magistris) sulle origini tessale del paese e la cruenta contesa fra questo e la rivale Fulcignano, l’affluire tumultuoso delle memorie dell’adolescenza trascorsa tra studi e riti greci e amareggiata dalla conflittualità liturgica, dalla commozione per l’ombra cara del padre assurdamente assassinato a Copertino da fanatici, che gli fanno gridare con rabbia il suo orgoglio italo-greco e la sua vergogna di italiano deluso. Finché l’amarezza si diluisce nella rassegna dei prodotti dorati della campagna galatonese e, in particolare, nell’esaltazione della fermezza civile dei concittadini. I quali, a differenza di altre popolazioni che si erano dileguate all’apparire delle orde turche, nell’estate 1480, si erano opposti virilmente alle incursioni della veloce cavalleria turca, resistendo a oltranza, bruciando le case e confiscando i beni dei più paurosi, ospitando e soccorrendo i profughi.
(continua al prossimo numero)
Vittorio ZACCHINO