Alle radici di una “censura” d'altri tempi.
Il recente dissenso (di seguito al quale il Vaticano ha preferito “soprassedere” alla visita in Ateneo del Santo Padre) mostrato da un gruppo di studenti, docenti e prestigiosi scienziati laici dell'Università “La Sapienza” di Roma riguardo all'“incongruo evento” della partecipazione del pontefice all'inaugurazione dell'anno accademico, dedicata quest'anno all'impegno contro la pena di morte, è stato senz'altro momento di riflessione per tutti noi. Un invito definito “provocatorio” dai dissenzienti, contrari all'“oscurantismo” dell'attuale politica papale, ma soprattutto offesi ed umiliati per i tanti processi della Chiesa contro scienziati di ogni tempo; processi, come quello a Galileo, ritenuti da Joseph Ratzinger ragionevoli e giusti.
Allo storico, portato per sua natura ad un'analisi retrospettiva, si è presentata, pertanto, l'occasione per ripercorrere i momenti più significativi del difficile e tormentato rapporto tra fede e scienza, nonché i motivi per i quali quest'ultima venne ad essere oggetto di un apparato di controllo che, in origine, era stato disegnato per altri scopi. L'ampia storiografia al riguardo, concernente per lo più episodi di particolare risonanza, e fornendo di rado una ricostruzione sistematica, complessiva ed analitica del fenomeno, aiuta senz'altro alla ricostruzione dell'intervento inquisitoriale sulla scienza (teorie, concetti, opere, autori), che coinvolse l'intera struttura della Chiesa, in tutti i suoi livelli e in tutte le articolazioni territoriali, consentendo pure di stabilire, seppur in modo approssimato e statistico, quanto l'apparato di norme e sanzioni, plasmando i comportamenti collettivi, agì sulla situazione storica.
Nella sua matrice intellettuale più profonda, l'intervento inquisitoriale non espresse, in realtà, una inconciliabilità tra “fede” e “scienza” (quest'ultima parola intesa, ovviamente, per il senso che essa aveva nel tempo in cui la censura ecclesiastica fu più influente), quanto invece il contrasto tra forma e contenuto della scientia scolastica (nella quale il dettato scritturale, la codificazione del dogma e il suo commento e concettualizzazione sistematica offerti dalla teologia si univano a vaste parti del sapere “fisico” classico e medievale) e quelli di una scienza che rimuoveva le ragioni tradizionali di quella unione. Detto altrimenti, ciò che entrò in urto con la nascente scienza moderna non fu una generica “religione” o “fede”, ma una realtà, per così dire, storica: un corpo, stratificato in fasi diverse ed estremamente composito, di credenze, conoscenze, tesi, metodi, presupposti, al quale un'opera plurisecolare di sistematizzazione aveva conferito una certa unità esterna. Questo processo di difesa di ciò che la tradizione sanciva come verità fu, dunque, la ragione di fondo per cui un sistema di controllo i cui obiettivi erano religiosi fu applicato a concezioni scientifiche.
Per entrare più nel dettaglio, qualche anno fa Ugo Baldini, in un suo studio su L'Inquisizione romana e le scienze: etica, ideologia, storia, conglobava in cinque “vie” i meccanismi che promossero l'applicazione dei “criteri” censori alla scienza: la via dell'astrologia e dell'occulto, la via dell'appartenenza religiosa, la via delle Scritture, la via della metafisica, la via dell'immoralità e oscenità. Le prime tre comportarono per alcune concezioni scientifiche un'imputazione diretta di eresia, o fecero proibire le opere di autori ai quali era rivolta questa imputazione; la quarta comportò un'imputazione indiretta (riguardando dottrine che non contraddicevano direttamente verità di fede, ma nozioni e fatti che erano ritenuti implicazioni di quelle verità); l'ultima comportò l'imputazione di un errore non teoretico ma pratico, la contravvenzione alla morale cristiana.
La via dell'astrologia e dell'occulto ha costituito, tra l'atro, un terreno privilegiato, da parte di chi scrive, per l'esame dell'attività repressiva, persecutoria e di controllo della Chiesa gallipolina, fra il 1596 e il 1690, nei confronti delle pratiche magiche, per la quale mi permetto di rinviare agli articoli pubblicati nei notiziari “Anxa news” di settembre-dicembre 2006.
Subordinando la scienza alla tradizione aristotelico-scolastica, la Chiesa, negli anni che seguirono il Concilio di Trento (1545-1563), diede, pertanto, avvio a un vasto programma di controllo sulla produzione culturale, che si sarebbe concretato nella proibizione, soprattutto a partire dal tardo Cinquecento, di quelle opere che avrebbero potuto compromettere il sistema aristotelico, armonizzato attraverso il tomismo con la tradizione cristiana.
I primi decenni che seguirono la decisione tridentina furono ancora pesantemente segnati dalla lotta contro la Riforma, un pericolo molto più immediato di quanto apparisse la scienza. Seppur indirettamente, comunque, il peso della censura sulla circolazione libraria non tardò a farsi sentire, soprattutto all'indomani dell'emanazione dell'Index librorum prohibitorum del 1559. Ne fecero le spese soprattutto i testi di medicina provenienti dalla Germania, come il Theatrum vitae humanae di Theodor Zwinger (Basilea, 1572). La loro circolazione, pur non interdetta, veniva rallentata e ostacolata dalle pratiche di controllo e dalla diffidenza nei confronti di qualsiasi libro entrasse in Italia provenendo dalle terre eretiche (Basilea, Ginevra). A partire dagli anni ottanta, con lo spostamento della strategia da un'azione antiereticale in senso stretto a un più ampio progetto di disciplinamento culturale e sociale, tutti i fermenti antiaristotelici o non pienamente conformisti diventarono oggetto di analisi da parte dei censori, il cui compito non era dei più semplici, data l'incertezza che aleggiava attorno a ogni tipo di produzione scientifica.
Occorreva senz'altro colpire qualunque opera andasse contro, o mettesse semplicemente in discussione, l'aristotelismo ortodosso, su basi sia neoplatoniche o ermetiche sia scientifiche. L'offensiva contro il neoplatonismo segnò l'ultimo decennio del Cinquecento: la condanna di Francesco Patrizi e del suo Nova de universi philosophia era del 1593 e il suo nome compariva nell'Indice del 1596; lo stesso periodo vedeva la proibizione degli scritti di Telesio, Campanella e Giambattista Della Porta, seguita qualche anno dopo da quella di Bruno, nel 1600. Il vero salto di qualità nei confronti del libro scientifico avvenne però solo a partire dagli inizi del Seicento. Nel l6l6 un decreto della Congregazione dell'Indice intervenne a proibire il De revolutionibus orbium celestium (1543) di Copernico, e con lui la dottrina eliocentrica in quanto “assurda” e “formalmente eretica”, contraddittoria rispetto alle Scritture.
La condanna arrivava dopo che la Lettera sopra l'opinione de' pitagorici e del Copernico (Napoli, 1615) del carmelitano Paolo Antonio Foscarini, intervenendo a favore dell'eliocentrismo, aveva richiamato l'attenzione su una teoria le cui implicazioni e le cui ricadute sulla tradizione erano enormi. Solo qualche anno prima, nel 1610, era stato pubblicato il Sidereus Nuncius di Galileo, immediatamente oggetto di osservazioni e critiche da parte di teologi che vi scorgevano l'immenso rischio di una lettura del “libro della natura” in chiave contraria all'interpretazione scritturale cattolica, perseguita attraverso il ricorso al metodo sperimentale in luogo della tradizione e del principio di autorità.
Il decreto di condanna a Copernico, pur non menzionando Galileo, era pertanto un preciso per quanto indiretto avvertimento a lui e al mondo scientifico in genere a non volersi distaccare dalle interpretazioni autorizzate dalla Chiesa. Da quel momento, l'attenzione nei confronti dei possibili veicoli di rischio fu altissima.
Le dense ed inquietanti vicende bio-bibliografiche del filosofo Giulio Cesare Vanini (Taurisano 1585 - Tolosa 1619), votate ad una tragica e clamorosa conclusione, e poco note, o comunque ricordate solo con brevi accenni, dalla storiografia specifica, ne sono testimonianza. Alcuni fugaci e generici, ma non per ciò meno significativi, spunti autobiografici presenti nell'Amphitheatrum e nel De admirandis, se forniscono poche informazioni sull'infanzia e sulla sua adolescenza, consentono invece di cogliere la sua naturale inclinazione a scrutare, sin da tenera età, gli “admiranda naturae arcana”, che tanta curiosità e interesse avrebbero poi suscitato anche sul suo pensiero umano.
Si tratta di osservazioni sporadiche sulla mancanza di crepitio nelle foglie secche d'alloro gettate sul fuoco, sulla sorprendente sopravvivenza di un'orata tarantina ermeticamente chiusa in un vaso colmo d'acqua, sulla cura dell'elmintiasi con l'uva passa, sulla spinta archimedea che porta a galla una vescica piena d'aria, su certe proprietà dell'aceto.
Ma, accanto all'osservazione della natura, propria del philosophus che parte dall'“experientia” e riconduce i fenomeni alle loro “causae naturales”, vi era nel Vanini la prepotente inclinazione ad osservare il mondo culturale ed umano, ad analizzarne i fenomeni religiosi e le loro implicazioni superstiziose. Beffardamente derise erano le credenze popolari pugliesi sul tarantolismo, sulla guarigione dalla lissa dopo un pellegrinaggio al tempio di S. Vito di Polignano a Mare, sulla funzione protettiva dei coralli dallo sguardo ammaliatore delle streghe e sulle cosiddette “voglie” delle puerpere.
Nel 1606 il Vanini si addottorò in utroque iure a Napoli, dove maturò, prima ancora che a Padova, i primi contatti con la cultura naturalistica, umanistica, giuridica e scolastica, fortemente presente nella sua formazione intellettuale. L'idea stessa del meraviglioso, l'insistenza sull'imprevedibilità degli “admiranda arcana”, che è uno dei nodi filosofici essenziali del pensiero vaniniano, spesso utilizzato in chiave antiprovvidenzialistica, fu anche uno dei temi maggiormente ricorrenti nella cultura partenopea. Sempre a Napoli probabilmente si accostò alle idee ereticali, caratterizzate spesso dal rifiuto del soprannaturale e da una sorta di antiprofetismo che negava il carattere divino del Cristo e contestava la veridicità del testo biblico.
Dopo essere entrato, nel 1603, nell'Ordine dei Carmelitani dell'Antica Osservanza (decisione forse determinata da difficoltà economiche), ed aver avviato lo studio sistematico della filosofia e della teologia, nonché l'attività di predicatore, si trasferì a Padova dove, mentre crebbe la sua intolleranza alla disciplina claustrale, venne scoprendo un nuovo universo filosofico-scientifico nella tradizione dell'aristotelismo eterodosso che lo Studio della Serenissima mantenne sempre viva. Frequentò, quindi, i circoli che professavano gli ideali latitudinari del Sarpi; riuscì a portarsi in Inghilterra; abiurò al cattolicesimo e abbracciò l'anglicanesimo. Scandalosa, certamente, fu la sua apostasia, ma ancor più scandaloso fu il suo rientro in seno alla Chiesa di Roma. Probabilmente per farsi perdonare il peccato di aver “prevaricato”, il Vanini compose un'opera apologetica sul Concilio di Trento, l'Apologia pro Concilio Tridentino, di cui fanno esplicita menzione almeno due lettere scritte dal Nunzio Apostolico di Francia, il cardinale Roberto Ubaldini, all'Inquisitore romano della Congregazione del Sant'Uffizio, il cardinale Giovan Garzia Millini.
Ad ogni modo, il gioco delle conversioni lo portò all'incredulità e l'esigenza di un riscatto personale alla più radicale empietà. Dopo la pubblicazione delle sue opere – nelle quali si fa beffa dell'esistenza di Dio, dell'ordine provvidenziale del mondo e della credenza nei miracoli – fu costretto alla clandestinità; ma ben presto fu catturato a Tolosa, processato e condannato al rogo dal Parlamento cittadino. L'Arrêt de mort, che comportava il taglio della lingua, lo strangolamento e la dispersione al vento delle ceneri, fu eseguito il 9 febbraio 1619.
Nel mondo estroso e stravagante della Corte francese, il Vanini, fattosi ben presto apprezzare per il suo spirito bizzarro e brillante, compose, fra il 1615 e il 1616, il De admirandis, dedicato al Maresciallo François de Bassompierre (grande favorito della Regina Madre Maria de' Medici) e pubblicato poi l'1 settembre 1616 munito dell'approvazione ecclesiastica e dell'autorizzazione del re alla stampa ed alla commercializzazione dell'opera. L'opera ebbe un successo immediato fra gli strati colti della società parigina, specialmente fra i libertini. Ma il succès de scandale aprì inevitabilmente gli occhi ai togati dottori della Sorbona, che si affrettarono a condannare l'opera il 1° ottobre 1616, ad appena un mese dalla pubblicazione.
Forse furono gli stessi censori, Corradin e Le Petit, preoccupati dello scandalo provocato dal libro, a chiederne la condanna con la speciosa giustificazione di essere stati raggirati dall'autore, il quale – a loro dire – avrebbe sostituito il manoscritto approvato con quello pubblicato. Una versione, questa, risultata oggi poco credibile. Dopo la condanna del De admirandis furono messe in atto tutte le consuete procedure per impedirne la diffusione, quali il ritiro delle copie dai librai ed il loro rogo pubblico, secondo la prassi del tempo, nella Place de Grève.
Qualche anno più tardi, a morte dell'autore avvenuta, anche da Roma sarebbe stato attivato l'iter per la proibizione dell'opera (secondo quanto riportato da fonti vaticane inedite, la cui analisi è in corso da parte di chi scrive), che sarebbe partita dalla Congregazione dell'Indice il 3 luglio 1620. Del resto il Vanini – che già aveva intuito le reali, seppur celate, intenzioni della Chiesa di Roma sin dal suo soggiorno genovese – aveva pur ricorso, nel suo De admirandis (ma anche nell'Amphitheatrum), a diversi artifici per eludere la censura (ambiguità, simulazione, ironia).
Le sue opere, oltre ad affrontare argomenti in qualche modo “delicati”, erano, difatti, scopertamente (e, forse, intenzionalmente) impostate sul “plagio” di diversi autori “atei” (com'erano chiamati i fautori dell'autonomia della sfera etico-psicologica nei confronti del sovrannaturale) e “scettici” (ossia gli increduli), già posti all'Indice, e da lui riprodotti nel loro genuino significato “eterodosso” e riproposti in circolazione rendendone esplicita tutta la potenziale carica anticattolica. Ciò nonostante, come suggerisce Namer, egli riuscì a “penetrare nello spirito del lettore”, a coinvolgerlo direttamente nelle discussioni e a strappargli un moto di “complicità”, suscitando un'eco di vasta risonanza. Conclude, dal canto suo, il Corvaglia in un scritto pubblicato postumo: “egli rende alle fonti [...] il prezioso servizio di isolare i tratti eterodossi, porli in luce, collegarli”, facendo di lui il vero erede e continuatore, anzi, il superatore delle sue “fonti”, l'ultimo e più avanzato esponente dell'aristotelismo eterodosso del tardo Rinascimento, la prima espressione del moderno libertinisme érudit.
Il consultore incaricato dalla Congregazione dell'Indice, in una densa relazione volta ad analizzare in dettaglio l'opera, evidenziandone le contraddizioni e gli errori, fece cadere i suoi sospetti su molti passi dei 60 dialoghi in cui essa era divisa, sollecitandone la condanna. In realtà, si trattava di un solo dialogo che si sviluppava nell'arco di un'intera giornata, in un periodo dell'anno da collocare dopo le ferie pasquali. Esso si svolgeva dapprima in casa del filosofo, poi nell'annesso frutteto e roseto; ed era intervallato da una merenda mattutina, da un pranzo a mezzogiorno e da una merenda pomeridiana. Forse l'ambientazione, anche se adombra una scuola di filosofia per adolescenti, si riportava idealmente alla casa dell'autore in Taurisano.
I personaggi del dialogo sono due philosophi che hanno gli stessi nomi (Giulio Cesare e Alessandro) del Vanini e di suo fratello. Sebbene entrambi impersonino le concezioni del Vanini, integrandosi reciprocamente, si potrebbe aggiungere che Alessandro rappresenta l'immediato passato speculativo dello stesso autore. Il De admirandis, pertanto, verrebbe a configurarsi come una sorta di specchio attraverso il quale il Vanini accetta nuove verità e demolisce quelle in cui ha sino ad allora creduto.
Ritornando ora ad un discorso più generale, dopo la parentesi vaniniana che mi premeva ricordare per i motivi di cui sopra, nel 1633 il processo inquisitoriale contro Galileo chiarì, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che la Chiesa voleva attuare una rigorosa ed intransigente politica di sorveglianza sulla produzione scientifica. La condanna aveva un valore simbolico di una certa consistenza, che faceva avvertire il suo peso soprattutto presso coloro i quali non volevano per ragioni morali schierarsi contro Roma: avutane notizia, lo stesso Cartesio rifiutò di pubblicare il proprio Traité du monde, edito infatto solo dopo la sua morte. Per chi non aveva scrupoli rimaneva sempre il mercato clandestino: negli stessi anni Mersenne pubblicò le sue Questions théologiques in duplice versione, una innocua destinata alle autorità, e una contenente riferimenti alla filosofia galileiana.
Una volta che la Chiesa ebbe affermato con chiarezza il principio secondo il quale ad essa sola spettava il ruolo di interprete autorizzata dei fenomeni naturali e delle Scritture, gli allievi di Galileo poterono insegnare nelle università italiane e pubblicare con una qualche tranquillità le proprie opere. Certo, volta per volta furono proibiti libri che trattassero della circolazione del sangue, del magnetismo animale, di fisica cartesiana, e poi i libri sull'atomismo, le opere newtoniane e così via.
Ciononostante il dibattito scientifico (fatto anche di semplici rapporti epistolari tra gli scienziati) non si interruppe, e il mercato clandestino consentì anche alla più avanzata produzione europea, proveniente soprattutto dall'Olanda, di circolare in Italia. Nel 1758, poi, si stabilì di non inserire più dei testi nell'Indice solo perché sostenevano il moto terrestre, pur non cancellando le opere già presenti per lo stesso motivo, come il De revolutionibus di Copernico e il Dialogo di Galileo.
Ad ogni modo, il peso dei divieti e l’ossessione dei controlli su questa produzione, proveniente in gran parte dalla Germania, già in pieno ’500, influì negativamente sulla circolazione della cultura scientifica nelle università, e più in generale in campo medico, essendo essa il più delle volte bloccata dalle incertezze dei censori. Tuttavia, in studi recenti, pur condotti in una dimensione decisamente storica, si nota una certa tendenza a minimizzare e a sottovalutare l'incidenza della repressione. Le istituzioni censorie sono viste non tanto come istituzioni repressive (come oggi, è stato scritto, le percepiamo con un “fondamentale anacronismo” che applica loro i “nostri codici culturali”), quanto piuttosto come “organo di governo e di riforma della Chiesa”.
Tali considerazioni sull'affievolirsi del rigore, desunte sulla base della scarsa rilevanza di documenti che lo attestino senza equivoco, sono state, tuttavia, ritenute spesso poco convincenti (spesso contraddette dagli stessi autori) e bisognose di ulteriori precisazioni, dal momento che maggiore attenzione andrebbe posta sulla notevole funzione preventiva o dissuasoria che ebbe la sola presenza di simili organismi di censura. È stata invece spesso richiamata l’attenzione sugli effetti involontari della censura, vista come stimolo alla lettura, alla curiosità, alla conoscenza.
Paradossalmente, difatti, anche nell’Italia cattolica, proprio la repressione poteva alimentare interesse nei riguardi dei libri proibiti, che continuarono a leggersi anche negli anni del concilio di Trento, consentendone la sopravvivenza.
Dunque, vicende, tutte queste, ben note, e fortemente sentite dai dissenzienti de “La Sapienza”, che scrivono in diversi luoghi dell'Università: “il sapere non ha bisogno né di padri né di preti”; “la scienza è laica”; “fra Giordano è bruciato, Galileo ha abiurato, noi resisteremo contro il papato”.
Milena SABATO