Abiti e paesaggi gallipolini

La storia del costume tradizionale in uso nelle varie province del Regno di Napoli si è andata chiarendo a partire da una trentina di anni fa, quando alcuni studiosi, con finalità diverse, avviarono autonomamente ricerche che toccavano disparati aspetti della vita culturale ed artistica napoletana al tempo di Ferdinando IV di Borbone. Ulteriori e importanti approfondimenti sull'argomento, e in particolare sulla Puglia, si sono avuti poi nel 2001 in occasione della mostra documentaria su “Il Costume Popolare Pugliese”, allestita nelle sale del Castello Carlo V di Lecce, che consentì per la prima volta, il confronto e lo studio delle fogge sette-ottocentesche delle “vestiture” gelosamente custodite in collezioni pubbliche e private, locali e non, dando conto di un fenomeno che, a partire dalla seconda metà del '700, stregò letteralmente i viaggiatori europei.
La mostra era nata da un evento storico noto. Nel 1782 fu organizzata, per volere di Ferdinando IV di Borbone (sollecitato certamente della volitiva consorte Maria Carolina d'Asburgo), una singolare missione con lo scopo di illustrare le “varie di maniere di vestire” degli abitanti del Regno di Napoli e di Sicilia e che sarebbero servite per l'utilizzo all'interno della Real Fabbrica di Porcellana. I tempi, le modalità e le tappe della campagna di rilevazione (che, nel suo insieme, durò, ben 15 anni, dal 1782 al 1797) sono documentati fondamentalmente da diversi dispacci del re e dei suoi intermediari e dalle “suppliche” ufficiali dei pittori della Real Fabbrica che furono scelti per l'impresa: Alessandro D'Anna e il leccese Saverio Della Gatta, in seguito sostituiti da Antonio Perotti e Stefano Santucci.
La straordinaria serie di acquerelli monocromi prodotti in quell'occasione documenta le fogge di vestire degli agricoltori, degli artigiani e dei negozianti regnicoli, i cui costumi sono puntualmente descritti nelle didascalie delle immagini. Il modello generale presenta la veste tagliata in vita; il corpetto è attillato, con maniche cucite o legate alle spalle da nastri o senza, aperto sul davanti e stringato da nastri passanti per occhielli; la gonna è molto ampia, spesso di tessuto diverso dal corpetto. La veste è infilata sopra la camicia lunga fino all'orlo della gonna e in vista nella parte superiore e nelle maniche; una pettorina è infilata sotto i nastri del corpetto. Sulla parte anteriore della gonna è allacciato il grembiule bianco, orlato di trine se poggia sull'abito festivo. Il modello prevede la presenza di una giacca o giacchetto con maniche (prima allacciate, poi cucite nel corso del sec. XVIII). Su questa base, si possono notare relative innovazioni e specificità locali legate, soprattutto, all'impiego di stoffe più o meno pregiate e all'uso di galloni in oro o in argento che a volte creano disegni originali sul capo di vestiario. La camicia è rigorosamente bianca, con collo tondo a fascetta, se è da lavoro, a V se festiva. I capelli sono intrecciati e raccolti sopra la nuca. L'acconciatura è completata da nastri e spilloni. Semplici fazzoletti a triangolo o grandi veli leggeri e ricamati coprono il capo. Elemento fondamentale dell'abbigliamento tradizionale era l'ornamento prezioso. Anche l'abbigliamento maschile risponde ad un modello generale: cappello (di varie fogge), camicia bianca, pantaloni aderenti legati al ginocchio, panciotto o gilet, giacca lunga o corta, calze, scarpe di cuoio. Anche in questo caso varano i tessuti: lane grossolane, felpe, velluti, amoerri.
Relativamente alla Puglia, gli unici monocromi di Berotti-Santucci pervenuti riguardano la zona di Terra d'Otranto, e risalgono agli anni 1787-1789. Essi, in numero di 44, ed oggi conservati nel Museo Provinciale di Lecce, nel Museo delle Arti e Tradizioni Popolari Salentine in Cerrate, nel Museo Nazionale di San Martino in Napoli e in varie collezioni private, furono realizzati su carta e le dimensioni variano da cm 20 x 15,3 a cm 25,8 x 21,2. In tutti i disegni la figura è dunque corredata da una didascalia che descrive i vari capi di abbigliamento, la destinazione dell'abito, i materiali impiegati con l'indicazione dei colori e dei tipi di tessuto. Così si legge relativamente alla Donna della città di Gallipoli dalla parte di dietro: “Capelli intrecciati con fettuccia color di rosa falzoletto bianco con il mantesino, corpettino e gonella color incarnato con galloncini di argenta di amoerro fascia bianca rigata color di rosa” (fig. 1).
I disegni, una volta a Napoli, furono probabilmente “trascritti” dai pittori della Real Fabbrica (tra questi, oltre ai nomi già citati, Giacomo Milani e Luigi Del Giudice), più attenti, questa volta, nel mantenere i particolari e i colori delle vestiture, con varianti per quanto riguarda le immagini e le pose. Tali tempere colorate, e fra queste quelle di Terra d'Otranto, vennero eseguite a partire dal 1787 e sono oggi conservate nel Fondo Lorenese di Palazzo Pitti a Firenze. Come tutte le gouaches della raccolta, di notevole qualità, furono dipinte a tempera su carta, in fogli le cui dimensioni variano da cm 27,3 x 20,6 a cm 23,2 x 17.
Comuni a quasi tutte le donne sono il “mantesino” arricchito di merletti, ricamo o galloni e le scarpe a punta e tacco alto, di solito di color rosa o celeste, con fibbie d'argento. Particolarmente interessanti i costumi della Grecía salentina (ovvero delle località di Martano, Calimera, Galliano), fedeli ai monocromi corrispondenti e indicativi dell'influenza greca soprattutto nella pudicizia del costume, che non lascia scoperta alcuna parte del corpo femminile in ottemperanza alle regole della religione ortodossa. Uno sguardo generale alle tempere pugliesi conferma l'ipotesi avanzata da vari studiosi che i modelli dominanti siano tratti dalla piccola borghesia, formata dai cosiddetti “artieri” (commercianti e artigiani), e che si tratti sempre di costumi della festa, dal momento che gli indumenti sono quasi tutti di buon gusto e di buona stoffa: il cappello a larga tesa, la giamberga (zimarra) o la sarica (giacca corta), il fazzoletto o cravatta policroma o a righe, le calze generalmente bianche, portate sotto i calzoni corti (le famose culottes francesi), mentre per il costume femminile spiccano le trine, i merletti, il falpalà, l'amoerro e soprattutto i gioielli o fioccagli (orecchini pendenti) usati anche dagli uomini a scopo apotropaico.
Dai costumi si deduce l'importanza dell'industria tessile pugliese e dei prodotti locali come le calze e le mussoline di Gallipoli, la felpa o vellutino di cotone di Taranto e in generale il filato di cotone destinato a mussoline, calze, guanti traforati, trapunte, pannine o ferrandine. Soprattutto usati sono il pizzo, le reticine, le trine e i merletti che le ricamatrici e i maestri pizzillari confezionavano e smerciavano a Lecce, o prendevano dalle monache dei monasteri.
Nella tempera raffigurante l'Uomo e Donna di Gallipoli la figura maschile indossa coppola bianca, camicia bianca, sarica rossa con sfilza di bottoni di stagno e asole allungate, calzoni bianchi a righe rosse, corti, stretti al ginocchio con sparati chiusi da sei bottoni, calze bianche e scarpe nere con fibbia. La donna porta invece orecchini d'oro con ciondolini di perline, più fili di granate al collo con pendente a fiore di granatine, pettorina di mussola bianca rigata in grigio guarnita di falpalà, gonna e corpetto di amoerro rosa, maniche legate alle spalle con galani celesti, paramani bordati di gallone d'argento, grembiule bianco di mussola con alto falpalà pizzettato, fusciacca in vita bianca a righe celesti e scarpe celesti con fibbia d'argento. Il bambino ha cappello di feltro nero a cupola tonda e tesa larga, camicia bianca, sarica e calzoni corti di colore celeste, calze bianche, scarpe nere (fig. 2).
Contemporaneamente e successivamente i monocromi ed i guazzi colorati della campagna reale servirono da modello per eseguire tempere, litografie, stampe, e per decorare (secondo il gusto e la moda propri del tempo) servizi di porcellana, piccoli oggetti di lusso e di piacere, spesso prodotti di “contrabbando” fuori dalla privativa reale. Ma soprattutto, la fortuna delle Vestiture è dimostrata dalla loro presenza in alcune vedute dei porti del Regno dipinte su commissione reale da Philip Hackert a partire dal 1787, ed oggi integralmente conservate nella Pinacoteca della Reggia casertana. Così nel Porto di Gallipoli, sul cui sfondo è una grande flotta di navi e la città gallipolina dove emerge la mole rossiccia del castello, è facile individuare l'Uomo e la Donna di Gallipoli: la donna ha i capelli intrecciati e il fazzoletto bianco con il mantesino, l'uomo ha una giacchetta corta sui fianchi, la sarica, i calzoni a righe e la berretta bianca. Appoggiato alle merci pronte per l'imbarco, in assoluto primo piano, è proprio un marinaio, meno elegantemente vestito e privo di calzature, con il capo coperto dalla berretta rossa (fig. 3).
L'utilizzo di documenti provenienti dagli Archivi di Stato (testamenti, capitoli matrimoniali, carte dotali, nonché apprezzi delle terre che, redatti in occasione di pendenze giudiziarie tra i feudatari e le università, riproducevano fedelmente la realtà sociale ed economica dei comuni) ha poi rappresentato una sostanziale innovazione nel settore degli studi sulle vestiture popolari, offrendoci essi le varie denominazioni dei tessuti, quelle dei loro colori, delle loro lavorazioni e del loro valore economico. Al momento della consegna della dote, infatti, trattandosi di un atto patrimoniale, il notaio, coadiuvato da publici esperti, seu apprezzatori, giusta la comune ed usuale costumanza de feudi, stilava un elenco analitico e talvolta valutativo dei beni. La dote, solitamente composta dal letto, dal corredo e da alcuni utensili domestici, poteva comprendere nelle classi abbienti beni mobiliari ed immobiliari, annui censi, denari e preziosi, in quanto il matrimonio costituiva l'occasione per la famiglia di soddisfare ogni pretesa ereditaria della figlia. La famiglia della donna provvedeva, inoltre, all'acquisto dell'abito dell'affida che, per la maggior parte dei casi, costituiva una spesa non superiore ai 30 ducati, e non differiva dalla veste giornaliera, se non per la qualità dei tessuti e per una maggiore ricchezza di ornamenti. Assai ristretto era il numero delle famiglie che poteva permettersi il lusso di spendere fino a 300 ducati per l'acquisto dell'abito nuziale, realizzato con tessuti lamati d'oro e d'argento.
Piuttosto modesto si presentava l'abbigliamento delle popolane, che, a partire dal XVII secolo fino alla prima metà del XIX, da un'analisi congiunta dei documenti, appare pressoché immutato. Negli elenchi dotali, la gonna (composta, nella maggior parte dei casi, da gonnella e corpetto, che metteva in mostra le maniche della camicia), indicata semplicemente bornacello o fustiano perché realizzata con tessuto di fustagno, poteva essere anche di lana e di cotone come la ferrandina, la saia e lo stambetto; un termine, quest'ultimo, che, ad esempio, ritroviamo nei “Capitoli, patti e convenzioni per le nozze tra Ottavio Tricarico e Rosa Spani di Gallipoli” del 10 agosto 1597. Insieme alle tovaglie ed ai fazzoletti ornati di pizzo da portare come copricapo, complemento dell'abito era lo scialle di lana o di seta, indicato con i termini spallaccio, spallera e – come nell'atto notarile citato – collana, che, a seconda dell'uso, poteva essere schietto, privo di ornamenti, o impreziosito di frange e pizzilli. Completavano il costume popolare femminile, spesso arricchito da vari ornamenti personali, il grembiule, indossato su qualunque veste, le calze (di lana o cotone) e le scarpe (solitamente le pianelle di pelle).
L'abbigliamento della donna di estrazione piccolo o medio borghese, sebbene fosse di maggior qualità e più ricco di ornamenti, non si differenziava in realtà da quello della popolana, contrariamente al corredo che, invece, si presentava ben diverso nella composizione e nella laboriosità dei tessuti.
Negli elenchi dotali delle donne aristocratico-borghesi, la dote rispecchiava il ruolo svolto dalle medesime nella società e nella famiglia (da notare, in questo caso, l'assenza degli utensili e dei vari panni da cucina), con una cospicua presenza di abiti e accessori da indossare, a seconda della preziosità, nei momenti informali e in occasioni mondane. Impreziosivano le vesti una serie di ornamenti detti scolle, pettiglie, polsini di pizzilli e fibbie di Rocca, come elencato, il 6 luglio 1757, nei capitoli matrimoniali tra Aurelia Maria Doxi-Stracca e Giuseppe Zacheo, nobili gallipolini. Nello stesso atto notarile si parla di manichitti di pelliccia di martora e di velluto per riparare le mani, di scarpe di drappo, di velluto e di amoer, e si attesta, accanto alla sopravvivenza della fandiglia (usata per dare volume a sottane e gonne) e dei rigidi busti, anche l'uso di una veste elegante, l'andrienne, abito dalla linea aderente fino al busto con una specie di mantella che, partendo dalle spalle, senza aderire in vita, si allargava creando un'ampia codetta.
Tutte queste stoffe, questi oggetti, la cui preziosità (laddove conservati) ce li rende oggi inavvicinabili, facevano parte della quotidianità, forse di quella legata a riti e feste. Sottolineavano la bellezza di una donna, erano il dono del padre o dello sposo, l'esito di una manualità straordinaria; erano gli oggetti del “sentimento” nel senso che ognuno di essi racchiudeva un'aspirazione, un messaggio segreto, un auspicio devoto, un atto di gratitudine, una materna soddisfazione. Ma questi oggetti ci parlano anche di aspetti più materiali, come ad esempio dell'economia del tempo, divenendo così l'abito, in particolare, lo strumento interpretativo del vivere sociale per i suoi molteplici significati, funzioni e valori del sistema culturale di una comunità.

Milena SABATO