Il V° centenario del “De Situ Iapygiae” di Antonio Galateo (1507-2007)
La Iapigia dell’umanista concittadino Antonio Galateo De Ferrariis compie cinque secoli, essendo stata composta nel 1507, come dimostrano gli studi e le ricerche del professor Domenico Defilippis autore dell’importante edizione dell’opera galateana, l’ultima in ordine cronologico, pubblicata presso Congedo nel 2005. Anche chi vi parla ha avuto modo di curare in passato tre edizioni(nel 1975, 1995, e 2004), l’ultima tri-lingue con traduzione in italiano del prof. Nicola Biffi dell’Università di Bari, mentre quelle in inglese e tedesco sono dovute, rispettivamente, alle dottoresse Caterina Colomba e Anna Maria Pisanelli.
Sarà Defilippis a parlarvi in modo specifico dell’opera e dei suoi contenuti nel contesto della letteratura coorografica ed umanistica, della sua originalità e dei suoi debiti letterari, delle peculiarità del Salento come regione, antropologiche, storiche, geografiche, ambientali, culturali, sociali, economiche.
A me il compito più modesto di inquadrare nel tempo il nostro autore e il nostro territorio, in un più vasto ambito provinciale, che vuole privilegiare e mettere a fuoco il rapporto tra l’uomo e la sua terra, il triangolo Galateo- Galatone -Salento.
Galateo scrive agli inizi del ‘500 per raccontare di una terra decaduta ed aspra, ma amabile, generosa, con i suoi piccoli borghi tranquilli e operosi, ricca di tradizioni culturali e religiose, abitata da genti miti e costantemente fedeli al proprio re, come gli otrantini e i gallipolini i quali si opposero eroicamente agli invasori turchi e veneziani nel 1480 e nel 1484. Una terra anche piena di contraddizioni, dove il lento tramonto della civiltà magnogreca di Taranto, e delle tradizioni religiose e culturali greche, ivi in auge e segnatamente nella nativa Galatone( rinomate le sue concelebrazioni liturgiche dell’Epifania e dell’Assunta) ad opera di famosi teologi e grecisti, viene in qualche misura ad attenuarsi grazie alla politica promettente di nuovi statisti e signori, fra i quali il nuovo uomo forte del viceregno spagnolo,Giovan Battista Spinelli conte di Cariati, e il duca di Nardò, Belisario Acquaviva, uomo colto e di grandi aperture, amico ed umanista, che ha fondato l’Accademia del Lauro, che medita di recuperare le antiche terme di Santa Maria al Bagno, e si sta prodigando per fare di Nardò una città proiettata verso la modernità.
La Iapigia, pertanto, è anche la prima grande rappresentazione del territorio, dei suoi fenomeni(il tarantismo, i miraggi neretini, la sgradevole presenza di serpenti , tarantole, bruchi) delle sue tipicità economiche, in particolare i prodotti agricoli color dell’oro di cui abbondano tuttora le campagne galatonesi(e neritine) dallo zafferano al cacio, all’olio, al vino, al miele, l’uva passa, i fichi secchi. Le tre province di Taranto Brindisi e Lecce, anteriormente alla disgregazione politico-amministrativa attuata dal Fascismo hanno costituito politicamente e geograficamente la Regione Iapigia, ossia la Terra di Galateo, come recita il titolo di un libro di Pietro Marti, bibliotecario provinciale, pubblicato nel 1931, e un mio videofilm che risale a quasi venti anni fa. In soldoni la Iapigia galateana comprendeva la penisola salentina bagnata, da un lato dal mare Ionio, e dall’altro dall’Adriatico.
E’ una descrizione che ammoderna e aggiorna il panorama della corografia, e correggendo dati non più del tutto attendibili, alla luce delle recenti scoperte geografiche e dell’America in particolare, come giustamente scrive e vi dirà Defilippis, senza dimenticare che Galateo era del ristretto stuolo di amici e cortigiani che argomentavano spesso alla corte aragonese su interessi geografici assai cari allo stesso Re Federico.
Ma è, soprattutto, un rapporto che tornava utile ai viceré spagnoli di Napoli, dopo l’assestamento delle cose del regno, e segnatamente ad un potentissimo uomo di potere, della caratura di Giovan Battista Spinelli, che glielo aveva commissionato. Spinelli, un punto di forza dell’establishement del viceregno di Napoli, appena conquistato dagli spagnoli, aveva interesse a che Re Ferdinando il Cattolico potesse disporre di un quadro di conoscenze indispensabili ad impostare una adeguata attività di governo sui nuovi domini, le nuove terre acquisite alla corona di Spagna .
Nella laudatio della Iapigia l’umanista di Galatone individua le reliquie di un passato che ancora non è morto del tutto : <<Infine la terra iapigia sorprendentemente atta ad ospitare insediamenti umani. Infatti, pur se si presenta aspra nella dorsale interna, vi troverai, dove si apre all’aratro, zolle assai fertili; e sebbene sia povera di acqua, nondimeno dispensa lieti pascoli e si offre alla vista ricoperta di alberi. Anche questa regione una volta fu densamente popolata e ospitò tredici città; ora, però, eccetto Taranto e Brindisi, le altre città non sono che minuscole borgate, tanto son decadute >>.
Una regione che << quantunque ora svigorita e decaduta, tuttavia(… ) è considerata bellissima e fra le più amabili>>, tanto che l’umanista la chiama carezzevolmente insularum omnium peninsularumque ocellus , perla di tutte le isole e le penisole.
Si sente la stessa tenerezza affettuosa di Orazio, anche se, diversamente dal poeta di Venosa, che sognava quel cantuccio ridente, quale approdo ultimo della sua vecchiezza, lo scrittore salentino registrava sul posto, e dal vivo, la situazione della sua terra, colmi il cuore e la mente di amarezza e di delusione, all’indomani della fatale svolta militare e politica che era costata la perdita del trono e l’esilio in Francia all’amico re Federico, ed a lui G. un rimpatrio non proprio desiderato.
E’ un viaggio di carta, da Taranto giù giù lungo la costa ionia fino a Leuca, da qui per la costa adriatica fino a Brindisi, che quindi punta all’interno su Manduria e Oria, e prosegue per Lecce, Galatina, Vaste Muro Ugento, nella Galatone nativa, e finalmente a Nardò.
Niente di più riduttivo che voler considerare questo itinerario classico semplicemente una stringata illustrazione delle località salentine visitate, con sobri cenni alle loro caratteristiche e peculiarità, atti ad attrarre l’occasionale visitatore; uno specimen di guida turistica cinquecentesca. Il De Situ è sicuramente tutto questo, ma è anche – come sottolinea Defilippis, -“un’opera dalla struttura complessa, che programmaticamente ambiva a gareggiare con i modelli antichi, e segnatamente con la Geografia di Strabone (…..) un’opera, insomma, dal sicuro taglio letterario che si imponeva per l’accuratezza espositiva, lo stile raffinato e la novità dei contenuti”.
Va anche detto che la scelta di illustrare un pezzo di territorio di ampiezza limitata e, per giunta, ben noto, come la piccola patria in cui si è nati e vissuti si configurava anche come un antidoto alle inquietudini e al senso di smarrimento prodotto dalle nuove scoperte, sicché perlustrare questo estremo lembo d’Italia quasi del tutto dimenticato, era come un tornare alle radici, un recupero, sul filo della memoria, del senso della propria identità etnica ed etica, un ritorno alla sicurezza delle proprie origini, messa in forse dalle recenti scoperte geografiche.
Così al di là dell’esaltazione delle glorie e dei prodotti locali, il De Situ rispecchia, con l’ethos particolare dei salentini , ultimi testimoni e custodi gelosi della civiltà greca, l’anima più autentica e più vera della regione iapigia, in uno slancio di rivalutazione e di riscatto dalla ingiusta emarginazione di questo amato “estremo angulo Italiae” . Una rivalutazione che l’umanista può realizzare, esplorando la Iapigia col gusto della ricognizione archeologica, e facendo emergere, col conforto autorevole degli autori classici, la memoria storica di matrice greca che i secoli avevano corroso e l’imbarbarimento e la decadenza dell’età di mezzo, irrimediabilmente offuscato e sommerso nell’oblio.
L’autore dà quindi inizio all’itinerario locorum, prendendo in esame, secondo il collaudato modello di Stradone, dapprima le località site in riva al mare, quindi quelle dell’entroterra, di ognuna indicando le coordinate fisiche e topografiche e, dove dispone di fonti attendibili, rievocando le vicende più importanti della loro storia antica e recente.
Questo tour ideale nella patria degli avi e nella culla della propria cultura abbraccia l’intera penisola salentina - il Salento storico – partendo da Taranto e concludendosi a Nardò , attraverso una serie di tappe intermedie in grossi agglomerati urbani come Lecce o Brindisi, in piccoli centri particolarmente cari all’autore, quali la nativa Galatone, in luoghi simbolo della resistenza eroica, civile e religiosa, dei salentini, come Gallipoli e Otranto, in famosi monasteri depositari di preziosi testi classici, (S. Nicola di Casole e S.Nicola di Pergoleto), attraverso una natura a tratti arida, ma sempre munifica e rigogliosa per il millenario lavoro dell’uomo che in queste contrade si armonizza con la clemenza del clima e la feracità del suolo.
Siccome, come detto innanzi, l’autore ha a cuore il recupero dei fasti dell’antichità magno-greca, il viaggio non può che cominciare da Taranto il cui splendore antico è l’emblema della più alta espressione della civiltà ellenica in Italia.
Della città bimare, pescosa e ubertosa, G. descrive la posizione arcigna di isola di forma ovale circondata dalle acque, con mura solide e possenti, il canale artificiale fatto scavare di recente dal Filomarino, i ponti che collegano la città al continente. Illustrarono Taranto Archita, Icco, Aristosseno, e la città visse secondo le tre forme di governo classiche in auge presso i greci- monarchia, aristocrazia, democrazia - finché decadde a causa del lusso sfrenato e delle mollezze , anche al presente cause della degenerazione della società da cui non si salvano neanche i principi della Chiesa, i quali non più accontentandosi dei legumi e dei pesci di scarso pregio delle origini, sono diventati avidi e insaziabili accumulatori di ricchezze.
Proseguendo verso sud, gli viene incontro la marina ridente di Saturo che verdeggia di agrumi e fichi e melograni, quindi S.Pietro in Bevagna, presunto luogo dell’approdo di San Pietro, Cesarea porticciolo pescosissimo, S.Isidoro vetusto scalo di Nardò, S.Maria al bagno abbandonata per la paura di pirati e saraceni, dove registra la presenza di ruderi di antiche terme che l’amico Belisario Acquaviva, signore di Nardò, medita di restaurare.
Un po’ più a sud eccolo giungere a Gallipoli, la gentile città greca che galleggia come una gigantesca padella sull’ azzurro del Ionio, i cui abitanti hanno scritto pagine memorabili di resistenza contro Carlo I d’Angiò nel 1269, contro i veneti invasori nel 1484, e recentissimamente a difesa dagli attacchi dei francesi di Carlo VIII e degli spagnoli di Consalvo di Cordova, sotto la guida esperta di Marco Antonio Filomarino e di Giovanni Castriota. Purtroppo questi eroismi periferici dei gallipolini e di tutti i salentini, colpevoli di abitare questa estrema periferia italiana, vengono ignorati sistematicamente e affogati nel silenzio e nell’oblio, diversamente evidenzierebbero l’infedeltà e la disaffezione dai principi di molte altre genti italiche.
Ecco il viaggiatore a Leuca,sulla punta bianca del Meliso, a Castro allora sede di vescovato con rocca alta sul mare, Santa Cesarea già rinomata per la salubrità delle acque e per la grotta in cui la santa giovinetta, che dà il nome al posto, trovò scampo sfuggendo alle turpi voglie del padre.
Badisco, mitico approdo del troiano Enea e poco più oltre il cenobio basiliano di S.Nicola di Casole, celebrato centro di cultura e di studio, e soprattutto di conservazione di codici greci rari, annunciano la città sacra di Otranto, famosa per l’eccidio turchesco subìto nell’agosto 1480, che la rese spianata e desolata. Il sacrificio degli otrantini, fra i quali il consanguineo arcivescovo Stefano Agricoli Pendinelli, gli detta una pagina vibrante di fede, eroismo e fedeltà, e G. ravvisa nella stessa morte di Maometto II un chiaro segno della Provvidenza per porre fine all’occupazione turca e così facilitare la liberazione d’Italia, e la salvezza della civiltà cristiana.
Da Otranto il nostro prosegue lungo il litorale adriatico con soste ai laghi Limini, a Roca e ai suoi poetici anfratti scavati dal mare, al robusto molo di San Cataldo costruito da Maria d’Enghien, quindi a Brindisi, città un tempo florida e popolosa, ora resa malsana e quasi deserta dalle guerre e dall’inclemenza del clima, ma anche dalla negligenza dei brindisini che avevano reso possibile un ambiente invivibile ed ostruito e reso inagibile il loro porto.
Lasciata Brindisi, il nostro volge verso l’interno, all’incirca da Nord a Sud, attraversando alcuni centri dei quali riferisce i momenti più significativi della loro storia, o presenta eccezionali reliquie monumentali, con rapidi schizzi di personaggi amici e in qualche modo protagonisti delle ultime vicende aragonesi . Segue un percorso che muove da Oria irsuta, che domina dall’alto sul suo castello svevo, tocca la Manduria dalle poderose mura messapiche, la campagna di Valesio, tagliata dai resti della via Traiana, a poca distanza dalla sua villetta sita in territorio di Trepuzzi, l’abbandonata abbazia basiliana di Cerrate, poi le rovine della Rudiae del poeta Ennio, ridotta ormai ad un esteso oliveto di cui è proprietario il genero Giovan Paolo Drimi.
Lecce, dove ha famiglia e amicizie importanti, e dove morirà il 12 novembre 1517, vanta vicende storiche notevoli che lo intrigano anche direttamente, ma egli non ha tempo e voglia di perdersi dietro ricostruzioni di fatti mitologici cui crede poco, bensì gli avvenimenti di epoca romana e medioevale, e le amichevoli conversazioni con i sodali del circoletto accademico di Gerolamo Ingenio; la città è turrita e pensile ma non abbastanza sicura, con i suoi caratteristici edifici di pietra tenera e bionda, circondata da selve di olivi, vigneti, e orti. Eccolo velocemente a Soleto, dove si accorge dei resti delle mura ma non della guglia arabescata del Colaci, quindi nella greca Galatina, che annovera personaggi di spicco, lo splendido tempio orsiniano di S.Caterina ed un ospedale per i pellegrini, poi a Muro, nella necropoli di Vaste, madre della prima misteriosa iscrizione a caratteri messapici, quindi fra i resti di Montesardo e di Vereto; risale poi per la poseidonia Ugento e da lì raggiunge la nativa Galatone.
Ed è qui, più che altrove, che i ricordi si fanno struggenti e affilati, come è giusto che sia, prendono a morderlo alla vista della chiesina di S.Giacomo con i libri greci di suo nonno e l’attigua casa a corte dei De Ferrariis, i racconti dei sacerdoti di rito greco(fra gli altri il prozio Giorgio Latino e Virgilio de Magistris) sulle origini tessale del paese e la cruenta contesa fra questo e la rivale Fulcignano, l’affluire tumultuoso delle memorie dell’adolescenza trascorsa tra studi e riti greci e amareggiata dalla conflittualità liturgica, dalla commozione per l’ombra cara del padre assurdamente assassinato a Copertino da fanatici, che gli fanno gridare con rabbia il suo orgoglio italo-greco e la sua vergogna di italiano deluso. Finché l’amarezza si diluisce nella rassegna dei prodotti dorati della campagna galatonese e, in particolare, nell’esaltazione della fermezza civile dei concittadini. I quali, a differenza di altre popolazioni che si erano dileguate all’apparire delle orde turche, nell’estate 1480, si erano opposti virilmente alle incursioni della veloce cavalleria turca, resistendo a oltranza, bruciando le case e confiscando i beni dei più paurosi, ospitando e soccorrendo i profughi.
Vittorio ZACCHINO
(continua al prossimo numero)
GALATEO E LA SUA TERRA ( seconda parte)
Il V° centenario del” De situ Iapigiae” di Antonio Galateo (1507-2007)
Il viaggio ormai alla fine, si concluderà qualche miglio più avanti , fra i miraggi e le credulità che ancora suggestionano la fantasia del popolino, nella Nardò di Belisario Acquaviva, e delle sue nostalgie di studente, dove G. sente ancora spirare un’ultima aura della grecità morente .
Se Taranto, capolinea del viaggio ideale, rappresenta l’apice della civiltà italo-greca, Nardò, dove l’umanista è stato educato, e dove conclude il suo tour, viene posta come estrema Tule , come simbolo dolente di una grecità ormai esausta e senza futuro. Le soste intermedie sono, generalmente, costituite da luoghi e siti dove la civiltà greca aveva potuto caratterizzarsi ed esprimersi in testimonianze di varia visibilità e importanza.
Ad inizio del viaggio, G. si è premurato di avvertire lo Spinelli che non si sarebbe data cura di riportare in modo esaustivo tutto ciò che le fonti hanno attestato, ma solo qualcosa per sommi capi, secondo un metodo proprio del filosofo più che dello storico: non mihi cura est omnia exquisite narrare quae auctores scripsere, sed summatim aliqua , ut tibi morem geram et ut philosophum, non historicum decet. E’ evidente che verranno trascurati i dettagli di scarsa importanza e analizzati gli aspetti più importanti e degni di memoria. .Un monito, forse, a quanti avrebbero potuto illudersi di trovare nel De Situ il resoconto fotografico di luoghi antichi e di siti archeologici di particolare suggestione.
Nell’operosa quiete delle città, come nel silenzio della campagna, lo sguardo penetrante del nostro indaga l’opera paziente e benefica della natura, come quella fattiva e geniale dell’uomo, le piante spontanee fra cui il croco selvatico dei dintorni di Galatone, e quelle coltivate con maestria come i fitti boschi di olivi e gli orti variegati intorno a Lecce, i reperti estratti dalle visceri della terra e le specchie di pietre innalzate quali tumuli di illustri defunti, o postazioni per scrutare in lontananza, le arcigne rocche che vigilano a difesa dei centri abitati, e i tranquilli monasteri in cui monaci dotti copiano e trasmettono i testi del pensiero antico, gli inganni della Fata Morgana e i balli liberatori dei tarantati. Sicché tradizione, storia, politica, e perfino il colore locale s’intrecciano e si collegano tanto più strettamente quanto più la narrazione si riferisce agli avvenimenti del più recente passato che coinvolge direttamente il filo-aragonese G. e lo anima ad un’operazione di denuncia e di scontro con l’attuale situazione socio-politica. L’umanista ama e rimpiange l’epoca degli splendori della corona aragonese e l’azione meritoria della dinastia cui sovente dichiara tutta la propria incondizionata dedizione. Certo il Mezzogiorno è stato sconvolto di recente dalle sanguinose guerre di successione, dagli striscianti conflitti religiosi, dalle invasioni devastanti dei turchi e dei veneti, dalle turbolenze baronali, ma nonostante tutto ciò il buon governo della monarchia aragonese si era potuto esplicare in una saggia politica indirizzata all’incremento dell’agricoltura e allo sviluppo del commercio, mediante la liberalizzazione del sistema degli scambi, una meno oppressiva esazione fiscale, l’istituzione di fiere e mercati, l’attrazione di mercanti, specialmente veneziani e fiorentini. Insomma gli aragonesi si erano fatti promotori di crescita della regione, ne avevano garantito la sicurezza dagli attacchi esterni attraverso un rinnovato sistema difensivo, avevano rispettato e incoraggiato l’orgoglio identitario e culturale delle popolazioni, venendone ripagati con straordinarie dimostrazioni di fedeltà e di lealtà. Il rimpianto per il passato governo non può che provocare una serie di considerazioni amare e di giudizi polemici sugli attuali dominatori, sul deplorevole quadro di generale degrado politico e sociale, che si era venuto determinando di recente in Italia, con le divisioni, la corruzione, l’avidità di potere, disinvoltamente praticati ai massimi livelli istituzionali, così civili come religiosi.
Fanno eccezione a quel degrado la Iapigia e la gens salentina, con le sue preclare virtù civili intellettuali e morali, retaggio della superiore cultura greca, vero blasone di nobiltà che resiste nonostante tutto. Siamo greci – grida Galateo –(Graeci sumus et hoc nobis gloriae accedit ) e ciò inorgoglisce noi che siamo eredi di illustre ed esemplare progenie, e che allo stesso tempo ci vergogniamo di essere nati in questa Italia ormai allo sbando, frantumata, abitata da genti prive di dignità e di identità . Ben altra tempra i salentini i quali, proprio in virtù delle loro superiori origini italo-greche, hanno saputo dare prove eccezionali di valore e di saldezza d’animo, nelle diverse circostanze che li hanno visti protagonisti.
“Se tutte le città del regno avessero dato prova della saldezza d’animo dei leccesi, dei tarantini, dei gallipolini, degli otrantini, - dichiara Galateo – non soffriremmo molti di quei mali che ci tormentano ”.6
Recuperare le scarne memorie del passato che il tempo insidia e divora inesorabilmente, e documentare il poco che c’è per farlo conoscere a coloro che verranno dopo di noi, e che diventa impegno preciso e indifferibile, una battaglia di cultura e di civiltà alla quale il filosofo non può venir meno; in precedenza, infatti, aveva scritto all’amico Luigi Paladini che anche se “ non è facile censire ciò che l’uomo ha cancellato dalla propria memoria, noi, tuttavia, per quanto ci è possibile, abbiamo il dovere di illustrare il suolo della patria”. Accanto a questo ruolo in favore della salvaguardia e trasmissione del patrimonio antico, compete al filosofo quello di maestro insostituibile di vita, di esercizio della scienza filosofica a sostegno dell’arte di governare( “la filosofia a soccorso de’ governi” dirà a fine ‘700 il Filangieri) mediante ”l’assunzione di una dimensione civile della cultura, nell’ambito della quale l’intellettuale acquisisce il ruolo primario di guida e consigliere di quanti sono preposti all’amministrazione della cosa pubblica”.7
In conclusione la Iapigia galateana, è il ritratto patriottico di una terra, idealizzata e reale al tempo stesso, che per quanto turbato dal pessimismo contingente, dalle riserve dell’autore per l’uomo del suo tempo, deve essere affidato alle nuove generazioni, nella speranza che possano amarla per salvarla dall’oblio, e farla progredire.
Oggi il Salento iapigio, pur conservando intatta la primigenia millenaria parentela con l’Oriente, è empre più crocevia di vario fervore meridiano, riva degli approdi e degli imbarchi, dove s’intrecciano le voci e i linguaggi d’Europa, il pluralismo delle idee e delle pelli. A queste ed altre genti di ogni altrove si rivolge l’aureo libretto galateano, con la sua inossidata freschezza cinquecentenaria, un’opera che custodisce e offre l’imago di un Salento mitico, solare, ricco di cultura e di bellezza.
Così Antonio Galateo, a distanza di cinquecento anni torna ad essere icona e blasone di nobiltà, ambasciatore della nostra terra in Europa e nel mondo.
Ma serve più attenzione verso di lui da parte della politica e dell’accademia.
La Iapigia, non è soltanto notte della taranta, a dispetto delle rivendicazioni e delle rissosità di questi giorni, ma è ancora paese impastasto di grecità, scrigno di memorie, di lingua, tradizioni, costume, è ciò va ricordato, custodito, riproposto e trasmesso.
E Antonio Galateo è patrimonio di tutti,e merita più di ieri di essere additato alla pietas della memoria di coloro che questo tempo chiameranno antico.
La memoria storica autentica di un luogo e delle sue peculiarità va salvaguardata e difesa, restituita a coloro che devono riappropriarsene affinché possano a loro volta consegnarla a quelli che verranno dopo, nella lotta senza tempo all’oblio. Non facendolo, coloro che verranno dopo e dopo ancora, erediterebbero un lembo di terra coperto di rovine,(tempore et vetustate omnia collapsa sunt). Purtroppo, a causa di questo progressivo affievolirsi del nostro amore verso la patria, le nostre cose , i nostri antenati, non facciamo che favorire un ritorno alla barbarie, ché anche la fortuna incostante ci volge le spalle e dirotta altrove la sua benevolenza; alio vertit sua munera, porta i suoi doni in altri luoghi, ad altri. Sta a noi preservare per i nostri figli e i nostri nipoti l’amabilità della nativa Iapigia, la fertilità delle sue campagne, la pescosità del mare di Porto Cesareo e Gallipoli, la vocazione ai traffici marittimi di Otranto, il rigoglio degli oliveti leccesi, e del sud Salento, la bellezza dei prati di Galatone punteggiati dal giallo del crocus sativus, la tenerezza della pietra di Lecce così adattabile ai templi come alle esigenze dell’agricoltura.
Ed inoltre, le glorie del vetusto ginnasio di Nardò, Fra Roberto Caracciolo vescovo di Aquino, e il Securo padre dell’Ateneo di Padova, Il vescovo martire di Otrasnto, Stefano Agricoli Pendinelli, i grandi ascendenti della sua famiglia Giorgio De Ferrariis e Virgilio De Magistris, le spechie sparse nei campi, le monete antiche, la fata morgana di Nardò, e le ninfe di Felline, le macarie di streghe e vampiri, il dolce sapore del miele e dei fichi, le contrapposizioni belliche fra partigiani di Giovanna di Durazzo e Alfonso d’Aragona, tra l’Orsini e il Caldora, tra Re Ferdinando e il principe di Taranto, fra cristiani e turchi, fra il grande Giovanni Granai Castriota prossimo signore di Galatone e i francesi di Carlo VIII.
A ben vedere la Iapigia greca, amabile e aspra, incontaminata, che balza dalle pagine di Galateo, non esiste più da tempo: stuprata dal cemento, dalle ciminiere, dai falsi miti del turismo di massa, dagli eventi di massa che illudono con l’offerta di spensieratezza a buon mercato, ammorbata e inquinata dai rifiuti , biglietto da visita della nostra odierna civiltà; non ha più lo stupore di Orazio incantato dal Galeso, o quello più recente di Francesco Gabrieli, ed anche le ccose buone di nicchia spacciate neelle sagre con l’etichetta della tipicità, sono al più ghiottonerie per raduni di massa che guardano soprattutto alla festa più che alle raffinatezze del palato. Sono convinto che anche quel brontolone di Galateo, sempre così difficile, così bastian contrario, non accetterebbe supinamente tutto quello che tocca a noi subire da amministratori inadeguati, troppo pieni di se e degli affari loro, e troppo poco,o niente pensosi del cosiddetto bene comune.
Ma ciò non deve impedirci di fare di Galateo la bandiera del nostro possibile riscatto, una prestigiosa icona della Iapigia-Salento odierni, l’ambasciatore nel mondo di questa sua-nostra terra amata-odiata.
Così anche questi premio che a lui si intitola serve a sottolineare con Galateo e le personalità che onoriamo a lui associandole, i caratteri originali e l’identità di questo Salento dell’anima ,sempre più insidiata dalla banalità, dall’effimero, da tentazioni di inciviltà.
Identificare la memoria storica di questi luoghi, che non si compendia evidentemente nell’agostano agitarsi del malefico ragno, per riappropriarsene e restituirla rigenerata e rinnovata alle nuove generazioni, deve essere lo scopo di tutti noi.
Sia questo premio Galateo il Premio Galateo-Salento, cioè il premio del Salento e di Galatone; la Provincia lo faccia suo, lo sostenga, lo gestisca anche, se vuole, non lo lasci più all’improvvisazione puntigliosa e disperata di qualcuno.
Vorrei poter convincere i nostri amministratori, comunali , provinciali , regionali che siano, che GALATEO è un patrimonio di tutti, uno dei più preziosi beni culturali che un paese o un territorio abbiano la ventura di aver avuto e di cui vantarsi. Non è stato davvero esemplare aver lasciato, dapprima, nell’incuria e nell’abbandono per decenni la casa natale del nostro illustre medico, l’aver permesso poi ad un privato(comunque da ringraziare per aver speso del denaro per tenerla in piedi) di sottrarla alla pubblica fruizione);né l’Università del Salento fa bella figura nell’averlo scaricato decisamente dopo i timidi approcci di Paola Andrioli di molti anni fa. Rimozioni? Ricusazioni? Aspettiamo spiegazioni da parte degli interessati.
Fedeli al monito epigrafico inciso nel marmo di Galatone, dettato il 1969 da Antonio Corsano che così si conclude: “illustrò amorosamente la nativa terra salentina assicurandole vanto di intramontabile civiltà “.
Vittorio ZACCHINO