Eretici e Santi nel XVII secolo

La storia di Isabella Tocca di Nardò, una “teologhessa” solitaria

L'attività dell'Inquisizione romana nel Seicento andò progressivamente estendendosi dal filone ereticale a quello, difficilmente controllabile, della santità e delle vie alla cristiana perfezione. In un'epoca di ridefinizione dei modelli cultuali promossa dalla Chiesa cattolica, tale azione di controllo riguardò diversi piani: dall'attento esame degli scritti dei santi al disciplinamento dei culti e delle devozioni, dalla marginalizzazione della santità “viva” alla repressione di quella ritenuta falsa. Il vaglio delle esperienze di santa vita, da sempre affidato all'ardua scienza teologica della discretio spirituum, divenne pertanto materia per i tribunali della fede e, a partire dagli ultimi decenni del Cinquecento, la simulazione o “affettazione” di santità, ritenuta tradizionalmente una colpa morale, andò trasformandosi in un reato di pertinenza inquisitoriale e fu considerata da allora, e per due secoli ed oltre, una vera e propria eresia.
Nel corso degli ultimi anni le ricerche su questi temi si sono moltiplicate, e dall'incontro di diversi ambiti di ricerca è andato emergendo un quadro multiforme, che ha permesso di conoscere i caratteri sociali e culturali del fenomeno, attraverso l'analisi di singole figure e gruppi o di specifiche realtà territoriali. Tali studi, condotti prevalentemente su fonti inquisitoriali, hanno consentito di aprire un divario fra santità vissuta e santità riconosciuta, restituendo un volto nascosto della vita religiosa e devota dell'Italia della Controriforma: un mondo sommerso, fatto di cenacoli spirituali (indicati come comunità di “perfetti” ed esposti all'accusa di condividere le posizioni condannate di Miguel de Molinos) e di complicate e tormentate storie di santi “mancati” e di carismi eccezionali, specie femminili, soffocati, in quanto “sfuggenti” ai canali dell'ortodossia, dalle istituzioni ecclesiastiche.
Pur nella sua originalità, vicenda esemplare per leggere l'operato del Tribunale ecclesiastico romano nei confronti delle manifestazioni di misticismo “incontrollato” fu quella che vide inquisita suor Isabella Tocca, monaca clarissa nel monastero di Santa Chiara di Nardò, perché “vantatrice di specialissimi divini favori con false opinioni”, come si legge nel sommario del suo processo conservato nell'Archivio vaticano del Sant'Uffizio. Il caso (come si vedrà, di non facile “classificazione” per gli stessi giudici) si colloca negli anni cruciali dell'individuazione dell'eresia mistica per eccellenza, il quietismo, formalizzato nelle proposizioni attribuite allo spagnolo Molinos, processato e condannato nell'autunno del 1687.
I primi sospetti di eresia nei confronti di Isabella erano stati sollevati dal suo confessore, il quale si era rivolto al vescovo per riferirgli di un'anonima penitente, la quale, dopo molte titubanze, per sgravarsi la coscienza, gli aveva rivelato fuori dalla confessione di avere qualcosa da dirgli, ma che “non era cosa mala”. Secondo la relazione del confessore, fatta “senza scrupolo di violazione di sigillo” confessionale, dal momento che tutto ciò gli era stato riferito fuori dalla confessione, la donna affermava: “Non vi è altro se non che Iddio si communica e si unisce strettamente con me, s'infonde nell'anima mia, e mi conferisce tanta di gratia, ch'io mi conosco fuori di me”. Qualche giorno più tardi, in confessione, la penitente aveva tuttavia rifiutato di affrontare la questione e il confessore le aveva negato l'assoluzione, proibendole di comunicarsi. Tali misure non ebbero però alcun effetto sulla penitente, la quale, dal canto suo, sosteneva, tra l'altro, di non aver alcun bisogno dei sacramenti perché “la gratia, che a lei dispensava Iddio, non derivava dalli sagramenti”. II vescovo di Nardò, monsignor Orazio Fortunato (1677-1707), si rivolse allora alla Sacra Congregazione, sostenendo di conoscere l'identità della donna penitente – la monaca Isabella Tocca –, la quale, nel frattempo, dietro pressioni del confessore, aveva comunicato anche a lui le proprie opinioni. Giudicata dal presule neretino “piena d'errori del Molinos”, si mostrò sempre ostinatissima, ed a nulla valsero i tentativi del vescovo di “ridurla alla verità”. I cardinali inquisitori, esaminato il caso, invitarono il vescovo a far sì che il confessore convincesse la monaca a presentarsi spontaneamente al Sant'Uffizio e a “denunziarsi giudizialmente”, cosa che, dopo mesi di suo ostinato rifiuto e di insistenza da parte del confessore, suor Isabella fece. La donna si presentò, infatti, al vescovo nell'ottobre del 1690 per autodenunciarsi e notificare le sue opinioni che, nel frattempo, aveva fatto mettere per iscritto dal confessore, suddivise per “capi”, pregando il vescovo affinché “se conosce esser necessario ne dia anco parte al S. Offitio di Roma, acciò si proveda a quanto è di bisogno per salute dell'anima mia e quiete della mia coscienza”.
In realtà, i giudici, esaminate attentamente le dottrine credute e sostenute da suor Isabella, fecero cadere l'accusa di quietismo, “diagnosticata” invece dal vescovo neretino. Affermava la monaca: “A me è paruto che Iddio s'infonde e s'unisce con l'anima mia e mi communica una grazia, chiamata da me grazia sufficientissima, per la quale ho perso il fomite di peccare, e non intendo più passione alcuna”, i peccati, anche i più gravi, in virtù della stessa grazia “con un semplice atto d'amore si cancellano tutti”. La sua svalutazione dei sacramenti nasceva da quello “stato di grazia”, da quella grazia speciale ricevuta, su cui lei non nutriva alcun dubbio, ma che, al contrario, riteneva “chiara, certa e sicura”: “dico ch'io non ho desiderio di sagramenti, perché la grazia che conferiscono li sagramenti è una grazia di poco momento, mentre con un peccato grave che si commette, subito la grazia si perde, quando, per contrario, chi ha acquistato questa grazia [...] sufficientissima, indipendente dalli sagramenti, mai si perde”. Tuttavia, la sua fede nella salvezza per mezzo della sola grazia e la sua religiosità spiritualizzata e interiorizzata si spingevano anche oltre, quando la monaca negava valore all'incarnazione di Cristo: “dico ch'io non gradisco l'incarnatione del Verbo, né li misterii della redenzione, perché si fa ingiuria a Dio considerarlo incarnato et appassionato, et in quanto a me, vorrei che non si fosse mai incarnato, perché a me pare che ridonda a vergogna di Dio l'esser morto sopra d'una croce, perché ci haverebbe potuto salvare con altri rimedii”. La suora ammetteva, comunque, di non essere in grado di riflettere sui misteri della redenzione e che, anzi, nell'orazione mentale “io non medito, né fo alcuna operatione d'intelletto o di volontà, mentre non penso né a Dio, né alli misterii della fede, né alli santi”. Ugualmente non riusciva a considerare la morte, l'inferno, il paradiso e il giudizio finale: “so che la consideratione delli Novissimi è utile e necessaria a gli altri, ma per me sarebbe un gran peccato pensare all'inferno o al giudizio, morte, e paradiso, perché mi pare una cosa abominevole, e farei un gran torto a Dio, perché Dio si deve amare independentemente, come atto puro independente d'ogni altra consideratione, e perciò io non vado mai alla predica, per non sentire queste cose”.
Isabella sostenne con fermezza le sue idee, rivendicando continuamente il diritto al suo individualismo religioso e sostenendo la non contrarietà delle sue opinioni alla Chiesa, in quanto “la Chiesa ha più figli, e chi nutrisce per una maniera, e chi per un'altra; a me Dio m'ha dato questa grazia, [...] la quale non è contro la fede della Chiesa, ma avanza e supera la Chiesa”. E allo stesso modo spiegò che “il giusto è obligato ad osservare li precetti di Dio e della Chiesa per salvarsi, ma l'altre opere buone, che non sono di precetto, come sono l'opere della misericordia, et altre opere virtuose d'humiliatione, d'oratione, e d'altre, dico che sono buone per l'altre persone, ma per me non ne sento né bene né male”. Chiarì poi che quando aveva sostenuto che “con l'opere buone si fa ingiuria a Dio”, aveva voluto dire che “con esse il christiano soggetta Dio all'opere nostre, perché in questa maniera ogn'uno operando bene potrebbe esser santo, perché soggettarebbe Dio a santificarlo”, mentre, invece, “Dio è libero e fa questa grafia di santificar l'huomo, a chi li piace, e questa è la gratia sufficientissima che ho ricevuta independentemente dall'opere, e tutte l'opere buone che io ho fatto, io non le conosco e non ne ho ricevuto giovamento, ma la gratia l'ho ricevuta per puro dono di Dio”.
Ma soprattutto, sosteneva di non essere affatto pentita e di non esserlo mai stata da dieci o dodici anni a quella parte, ossia da quando aveva ricevuto la “grazia speciale”, e di essersi confessata in quegli anni solo perché così il confessore le aveva ordinato, sebbene ciò fosse per lei del tutto inutile, “mentre li sacramenti sono medicine per curar l'anima dal peccato, ed io, nel stato che sto hoggi, non posso peccare”; i precetti della Chiesa, come quello pasquale, erano fatti “per li nemici, e non per li amici di Dio”. Allo stesso modo si diceva sì pronta a sottomettersi ai comandi delle autorità ecclesiastiche e a riconoscere di aver peccato ed errato, ma solo “con la volontà” e a parole: “Signor sì che io son pronta, e prontissima a detestare con la volontà e con la lingua tutto quello che mi sarà comandato dalla Santa Sede Apostolica, et anco da Vostra Signoria Illustrissima, ma con gli effetti poi scusatemi, perché io la sento altrimenti”.
Insomma, in coscienza, Isabella non riusciva proprio a persuadersi del suo errore e mons. Orazio Fortunato, riferendo tutto alla Congregazione romana, aggiungeva: “che cosa intenda per gli effetti, io non ho potuto capirla, perché non sa spiegare il suo concetto, havendo a mio credere l'imaginativa guasta e corrotta. Ma per quanto ho potuto capire dalle sue sconnesse parole, mi pare che voglia dire che non può assentire coll'intelletto al contrario di quello che ella tiene e [...] che non può credere diversamente da quello ch'ella sente”.
Il vescovo, pur sapendo che il vero problema di suor Isabella era, in realtà, solo la sua ostinazione intellettuale, avanzò quindi la più comoda e sbrigativa ipotesi della pazzia della donna, la quale era forse “più bisognosa d'esserle curato il cervello nella casa de' mattarelli, che messa nel S. Offizio”. Aggiungeva inoltre: “ha permesso Iddio che il demonio l'habbia vinta con questa tentatione, perché ha voluto fare sempre la teologhessa, ma spero che sia per emendarsi, essendo per altro una brava monaca, da quest'errori in fuori”. In effetti, Isabella Tocca era ritenuta una bravissima monaca, non avendo mai violato la disciplina monastica né dato il cattivo esempio alle consorelle o comunicato e insegnato ad altri i suoi errori.
Il carteggio del vescovo con la Congregazione romana, protrattosi fino all'estate del 1691, insisteva sempre sull'ostinazione della monaca, incrollabile nella sua fede, tanto che il presule, a dispetto di quanto aveva fino ad allora sostenuto, dovette riconoscere (febbraio 1691) che “la sua presunzione di sapere e fare la teologhessa me la fa stimare più eretica che matta”. Era infine ricorso alle minacce “del fuoco”, alle quali la monaca “cominciò a mutar linguaggio, e rimettersi alla credenza della Chiesa”, accettando infine di abiurare i suoi errori, seppur con “freddi” e “dubiosi” segni di pentimento.
A questo punto, la Sacra Congregazione prescrisse il rimedio consueto in casi del genere: l'intervento di padri spirituali “dotti e prudenti”, che avrebbero dovuto portare la monaca alla “totale resipiscenza” e, se necessario, il ricorso a cure mediche oltre che, come al solito, la proibizione di accedere ai sacramenti e alle grate del parlatorio. Per ordine del vescovo la suora fu, inoltre, rinchiusa in una cella, sotto la vigilanza costante di un'altra monaca, dove gli unici segni di insubordinazione che mostrò furono il rifiuto dell'acqua santa e di inginocchiarsi davanti alle immagini sacre, fermamente e assolutamente certa di essere nel giusto e dunque ingiustamente perseguitata.
In seguito alla relazione del caso, sette dei consultori del Sant'Uffizio si espressero a favore di un vero e proprio processo, altri sei ritennero invece necessario compiere altri tentativi per via “extragiudiziale” per costringere la monaca alla ritrattazione, al fine di evitare così il ricorso al foro esterno. Dai Decreta della Congregazione relativi all'anno 1692 si apprende che fu quest'ultima la linea adottata: Isabella doveva essere privata del velo e tenuta carcerata in isolamento fino a che non avesse accettato l'abiura formale, dopo la quale sarebbe stata istruita e ammonita dal vescovo o dal suo vicario, le sarebbero state imposte delle “penitenze salutari” e, infine, sarebbe stata assolta. A differenza di altri casi per certi versi analoghi (ricostruiti di recente dalla studiosa Adelisa Malena, in L'eresia dei perfetti. Inquisizione romana ed esperienze mistiche nel Seicento italiano), la vicenda della “teologhessa” di Nardò venne dunque risolta senza clamori, nel silenzio della clausura, senza lasciare, almeno in apparenza, alcuno strascico.
Quel singolare impasto di dottrine pericolose aveva certamente spiazzato i giudici, tanto più che Isabella, come tenne a precisare, non aveva tratto le sue opinioni da alcun libro. “Tutto quello che ho detto – sosteneva la suora – non l'ho letto in nessun libro, ed io non ho altri libri appresso di me che il padre [Alonso] Rodriguez, la Manna dell'anima [di Paolo Segneri] e li Riflessi della santissima Trinità del padre Antonio Glielmo, però io poco li leggo, perché non mi piace di legger libri, e né meno di sentir prediche” (tali opere potrebbero oggi rintracciarsi nella biblioteca vescovile di Nardò, nel fondo librario proveniente dal monastero di Santa Chiara).
Al contrario, molte volte durante i processi inquisitoriali di questo tipo vennero riaffiorando testi di direzione spirituale che uomini e donne avevano non solo letto, ma “vissuto” nella propria esperienza religiosa, quali fonti di ispirazione (per lo più “Guide”, “Regole”, “Vie brevi” e “Lettere spirituali”), e che, in Italia, a seguito della bufera quietista, caddero sotto la scure delle Congregazioni dell'Indice e dell'Inquisizione. In quei testi c'erano temi, formule, espressioni, che – se da sempre venivano considerati con una certa cautela –, in quel preciso momento apparivano pericolosi, e dunque dovevano essere evitati o proibiti. Si trattava di una logica che, se portata alle sue estreme conseguenze, rischiava di rivelarsi assolutamente inapplicabile, oltre che, paradossalmente, distruttiva per l'intera letteratura mistica cristiana, anche per quella considerata ortodossa. Ma le autorità romane, perfettamente consapevoli di questo rischio, adottarono tale strategia soprattutto per far fronte a un pericolo emergente e concreto. Erano ora altri i modelli di perfezione propugnati dalla Chiesa cattolica, individuabili in un ideale ascetico moderato e in una mistica “obbediente”, quanto mai lontana dalle chiese separate dei “perfetti” e dagli sfuggenti carismi di madri e “teologhesse”.

Milena SABATO