Nel centonovantesimo anniversario della nascita Antonietta De Pace: patriota gallipolina (1818-1894)
Il nome di Antonietta De Pace è stato riportato alla luce, dopo essere stato quasi completamente dimenticato per circa 100 anni, per merito di una sua pronipote che, facendo della vita della sua antenata un avvincente romanzo storico apparso nel maggio 1998 (E. Bernardini, Antonietta e i Borboni), ha suscitato in me l’interesse a conoscere meglio questa avvincente figura di donna - patriota.
Per descrivere con sufficiente chiarezza l’importanza e la difficoltà delle azioni politiche condotte a termine dalla De Pace, è necessario sinteticamente inquadrarla nelle vicende del Risorgimento italiano.
Al pari di altri paesi europei, anche l’Italia, nella prima metà dell’Ottocento, conobbe un processo di graduale riscoperta e di sempre più netta rivendicazione della propria identità nazionale; ma, a ben vedere, il caso italiano presenta degli elementi di originalità rispetto alle analoghe vicende europee. Se paesi quali l’Irlanda, la Polonia e l’Ungheria, in quegli stessi anni, auspicavano e rivendicavano il ritorno alla condizione di libertà e di piena sovranità di cui essi già godevano, seppure – è il caso dell’Irlanda – in un lontano passato, come Stati unitari, diverse erano le aspirazioni dei patrioti italiani, giacché, non essendo mai stata l’Italia politicamente unita, miravano a costruire un’entità statale assolutamente inedita. Ma se uno Stato italiano non era mai esistito, fin dal Medio Evo e lungo tutto il corso dell’età moderna, era stata teorizzata da letterati e pensatori politici quali Petrarca, Machiavelli e Alfieri, l’idea di una “nazione” italiana.
In Italia, sotto l’influenza del rinnovato clima culturale, voci unitarie e indipendentiste erano emerse verso la fine del XVIII secolo, dall’ala radicale del movimento giacobino di derivazione illuministica; i successivi anni della dominazione napoleonica sulla penisola (1806-1815), durante i quali gli Stati italiani si ritrovarono per la prima volta soggetti a una legislazione unitaria, ebbero l’effetto di rafforzare e propagare ulteriormente tali aspirazioni.
Poiché era vietata l’espressione del dissenso politico, la lotta per l’affermazione degli ideali di libertà fu costretta ad assumere spesso forme clandestine, fra le quali emerse la “Carboneria”. Contrariamente a quanto era avvenuto per la Massoneria, avversata dal clero per la sua ideologia laica, i primi carbonari non corsero rischi analoghi giacché la simbologia della setta si richiamava espressamente alla Passione di Cristo, visto come un simbolo del coraggio nel resistere alle avversità ed alle persecuzioni. La Carboneria fece proprio il trinomio nazione-popolo-legge naturale originariamente egualitaria, da cui discendevano le istanze costituzionali più avanzate nel campo dei diritti civili e politici.
Queste furono proprie nei moti del 1820-1821 che sconvolsero sia l’Italia meridionale dominata dai Borboni sia il Piemonte sabaudo. Ma la Santa Alleanza impose ben presto il ritorno ai regimi assolutistici e la reazione divenne più pesante.
Negli anni Trenta, dopo la delusione della mancata propagazione della rivoluzione francese del 1830 anche all’Italia, gli antichi Stati conobbero un periodo di relativa collaborazione fra i sovrani e le classi dirigenti locali, secondo il modello della cosiddetta “monarchia rappresentativa”. Si faceva, intanto, strada la necessità di un moto unitario, il cui principale interprete fu Giuseppe Mazzini, che fondò nell’esilio di Marsiglia la “Giovine Italia”; il programma di questa nuova società segreta si riassumeva in tre parole: unità, indipendenza, repubblica. Il proselitismo mazziniano ebbe molto successo, anche perché superava taluni schemi troppo rigidi della carboneria, aprendosi anche alle esigenze delle classi popolari, soprattutto urbane. Tuttavia, i tentativi insurrezionali fallirono, talora anche tragicamente.
L’Italia visse nel 1848 quella “primavera dei popoli” che si estese a gran parte dell’Europa; tutti i sovrani erano stati costretti ad emanare la Costituzione e soprattutto ad allearsi contro l’Austria nella prima guerra d’indipendenza; ma appena il Papa si sfilò preoccupato dalle minacce asburgiche di scisma, la coalizione si disciolse e restò a combattere il solo Stato Sabaudo, il cui re, Vittorio Emanuele II di Savoia, volle mantenere il regime costituzionale a dispetto delle pressioni austriache e fece del Piemonte il centro di riferimento per tutti i patrioti e quindi il protagonista del movimento nazionale.
Alla parentesi rivoluzionaria seguì un importante decennio di preparazione in cui si affermò definitivamente l’egemonia sabauda sulla causa nazionale. Mentre i democratici mazziniani scontavano il fallimento di molte imprese, fra cui quella di Sapri guidata da Carlo Pisacane, soffocata proprio da quei contadini meridionali che avrebbero dovuto liberare, il Piemonte si valse dell’illuminato governo prima del marchese D’Azeglio poi del conte di Cavour. Questi intuì la necessità di fare della questione dell’unità italiana un oggetto della politica internazionale europea, inserendosi nella rivalità fra Austria e Francia, con il favore sotterraneo dell’Inghilterra. In tal modo, condusse Napoleone III alla guerra contro gli Asburgo (1859) ed il Piemonte poté annettersi la Lombardia, cui si aggiunsero la Toscana e l’Emilia, dove i sovrani legittimi erano stati detronizzati per il venir meno della protezione austriaca.
Mentre sembrava, però, che il Cavour e il re Vittorio Emanuele II si sarebbero accontentati dell’allargamento dei domini sabaudi all’Italia centro-settenrionale, i democratici meridionali ripresero l’iniziativa grazie all’impresa dei Mille guidata da Giuseppe Garibaldi, che sbarcò a Marsala (1860), conquistò la Sicilia e risalì fino a Napoli, impadronendosi dell’intero Regno borbonico, finito nelle inesperte mani di Francesco II. L’incontro fra Garibaldi e Vittorio Emanuele II suggellò l’unificazione del Paese, che fu successivamente proclamata a Torino nel 1861 dai deputati convenuti da gran parte d’Italia.
E’ proprio nel regno delle Due Sicilie che si compiono le vicende umane e l’attività politica di Antonietta De Pace; in quel regno, che già nel 1799, dopo la fine della Repubblica Partenopea aveva visto le condanne a morte di Luisa Sanfelice ed Eleonora Fonseca Pimentel, quest’ultima impiccata, anziché decapitata , come sarebbe spettato al suo rango di nobile, ed appesa per i piedi sulla piazza del Mercato di Napoli priva, per sfregio, dei suoi indumenti intimi.
Antonietta De Pace nacque nel 1818 in una cittadina, Gallipoli, posta nell’allora Terra d’Otranto, estrema provincia sud – orientale d’Italia. Suo padre, Gregorio, era un banchiere napoletano, mentre sua madre, Luisa Rocci Cerasoli era una nobildonna d’origine spagnola i cui fratelli avevano attivamente partecipato agli eventi rivoluzionari – estesi anche alle province – della Repubblica Partenopea del 1799, e a causa di ciò erano stati classificati come “sospetti” nelle carte della polizia borbonica.
Nell’educazione di Antonietta molto contribuirono due uomini: quando era fanciulla e adolescente su di lei certamente esercitò una notevole influenza lo zio paterno, il canonico Antonio De Pace, astronomo di una certa notorietà e fornito di una importante biblioteca in cui figuravano i maggiori scrittori illuministi (fra l’altro sappiamo che Antonietta aveva studiato e conosceva bene il diritto); lo zio Antonio era inoltre un fervente carbonaro, tanto da essere divenuto il Gran Maestro di una delle vendite installate a Gallipoli(così erano chiamate le logge carbonare). Nella giovinezza di Antonietta, il secondo uomo che dovette sicuramente iniziarla agli ideali politici liberal-democratici fu il cognato e patriota napoletano Epaminonda Valentino; costui, avendone sposato la sorella Rosa, poteva viaggiare liberamente fra Napoli e la Terra d’Otranto tenendo le fila della corrispondenza politica fra queste due regioni.
Della prima fase della vita di Antonietta – in particolare dei primi trenta anni, dal 1818 al 1848 – sappiamo ben poco poiché la maggior pare delle notizie su di lei provengono da una biografia scritta nel 1900 dal marito, anch’egli patriota, Beniamino Marciano, da lei conosciuto a Napoli soltanto nel 1858, cioè quando aveva già 40 anni. Quindi al di là della biografia del marito, la sua vita è stata da me ricostruita attraverso un incrociata verifica su talune carte della polizia in parte inedite, in parte pubblicate in maniera discontinua e con riferimento spesso ad altri patrioti. Alla luce di queste considerazioni sappiamo che la De Pace prese attivamente parte alla preparazione in Terra d’Otranto dei moti del 1848 che, diffusi in tutta Italia, furono particolarmente violenti a Napoli, sulle cui barricate si fece notare il cognato Valentino; in seguito a ciò questi fu arrestato e morì dopo qualche mese in carcere, a Lecce a soli 38 anni (tradito da una lettera anonima invita alla Polizia borbonica).
La fine prematura del congiunto segnò uno spartiacque nella vita di Antonietta che lasciò la natìa Gallipoli per trasferirsi a Napoli con la sorella Rosa ed i due nipoti. Ivi lei continuò a tessere ancora più attivamente le trame della sua attività politica da fervente seguace dei principi democratici della Carboneria e da convinta repubblicana. Queste si concretizzarono con la fondazione di un Circolo Femminile nel 1849 composto da donne prevalentemente di estrazione nobile o alto – borghese, i cui mariti, figli o fratelli languivano nelle orride carceri borboniche; il compito di queste donne fu innanzitutto quello di tenere i contatti con i loro parenti detenuti a cui riuscivano, con grave rischio, a far pervenire viveri, lettere personali e informazioni politiche che molto contribuirono a tenerli in vita (è singolare notare, a questo proposito che la malavita napoletana, la cosiddetta “Camorra”, poiché teneva, di fatto, il controllo delle carceri borboniche, accettando di farsi corrompere dai parenti dei detenuti, ha sicuramente salvato molte vite di patrioti).
Di questo Circolo femminile, come pure del successivo Comitato politico femminile (attivo negli anni 1849-1855) si conoscono i nomi di alcune componenti (la moglie di Filippo Agresti, Alina Peret (una francese), la moglie di Luigi Settembrini, la zia dei Poerio, tutti noti patrioti incarcerati).
La De Pace, oltre che dirigere l’attività di questi Comitati femminili (è assai significativa l’evoluzione semantica di essi, con l’aggiunta dell’aggettivo “politico”) collaborava attivamente anche con Associazioni patriottiche meridionali più note, quali l’Unità d’Italia (1848), la Setta carbonico-militare (1851), il Comitato segreto napoletano (1855) che propugnarono l’unificazione dei numerosi movimenti politici del Meridione, sotto l’egida repubblicana facendo una vasta opera di propaganda anche in seno all’esercito.
A causa di tale attività eversiva, Antonietta era costretta continuamente a cambiare casa (sia per non coinvolgere la sorella Rosa nella sua attività politica, sia per depistare la polizia borbonica che la teneva d’occhio). Ma, com’era inevitabile, venne arrestata il 24 agosto 1855. Il marito scrive che Antonietta al momento dell’arresto immediatamente trasse dal seno due piccoli foglietti e, appallottolatili, li inghiottì, dicendo all’esterrefatto poliziotto che prendeva delle pillole. Si trattava invece di due messaggi segreti provenienti direttamente dal Mazzini.
Portata al Commissariato di polizia di Piazza Mercato, fu tenuta in una stanzetta di m.2x3 per circa 15 giorni, senza potersi mai né distendere su di un letto, né lavarsi ed essendo spesso interrogata nel pieno della notte, allorché era assopita.
Le accuse erano pesanti, poiché, pur avendo distrutto la corrispondenza più pericolosa, nella sua cella del convento di S. Paolo, furono rinvenute lettere che, nel loro frasario, facevano pensare – come in effetti lo erano – a documenti politici cifrati.
Ma Antonietta, richiesta di spiegazioni, non ammise mai nulla, sostenendo l’interrogatorio con fermezza e lucidità sia di fronte all’abile e duro commissario Campagna, sia di fronte ai giudici e dando, spesso, delle giustificazioni così intelligentemente escogitate da far sì che le prove vere e proprie del complotto non potessero essere riscontrate, dal punto di vista processuale.
Per la De Pace il procuratore generale aveva chiesto la condanna a morte, sulla quale esprimendosi la giuria a parità di voti (3 contro 3 a favore), venne fortunatamente assolta per mancanza di prove e non con formula piena.
Al processo, che fece notevole scalpore, soprattutto perché l’imputato era una donna e per giunta una ricca borghese, assistette sempre una gran folla, fra cui gli ambasciatori inglese, francese e dello Stato sabaudo; le corrispondenze dei giornali dell’epoca fra cui il “Times”, tutte a favore del coraggio e dell’intelligenza dell’imputata, molto contribuirono ad alienare alla dinastia borbonica la considerazione e la stima non solo dell’opinione pubblica europea più evoluta, ma anche di taluni regnanti.
Secondo la prassi poliziesco-giudiziaria dell’epoca, la De Pace, libera, doveva essere posta per un certo numero di anni sotto tutela di un parente, che fu il cugino Gennaro Rossi, barone di Capranica, figlio di una zia paterna, presso il quale abitava nel 1858, anno in cui conobbe il futuro marito, Beniamino Marciano, un giovane prete di tendenze liberali, che a causa proprio delle sue idee politiche si era allontanato dal natio paese, Striano, nei pressi di Salerno, ed era andato a vivere nel palazzo dove risiedeva Antonietta.
Il Marciano a quei tempi aveva già abbandonato il suo abito talare a causa delle sue idee liberali (forse perché Antonietta, convinta anticlericale, influì su tale scelta? Non lo sappiamo con precisione poiché egli non dice quasi nulla di sé, proteso com’è a parlare solo della vita di sua moglie, per la quale manifesta una affettuosa e devotissima venerazione. Eppure proprio a Beniamino Marciano fu affidato il comando ad interim della provincia di Salerno, mentre Garibaldi, con Antonietta De Pace, entrava finalmente e trionfalmente a Napoli, liberata dai Borboni nel settembre 1860 (lei era vestita di bianco rosso e verde, i colori della bandiera italiana). Le azioni militari di Garibaldi furono determinanti per fare entrare il Meridione d’Italia nell’orbita dell’unificazione nazionale, il cui fine fu economicamente supportato dalla raccolta di fondi, che vide ancora una volta in prima linea – a Napoli e nelle province – la De Pace aiutata da molte altre donne (l’apporto di questi introiti finanziari e di quanti si dettero da fare per ottenerli è stato spesso sottovalutato e meriterebbe a mio avviso un maggiore approfondimento storiografico). L’importanza del ruolo svolto da Antonietta De Pace è testimoniata sia dalla volontà di Garibaldi di assegnarle una pensione, sia dal fatto che, recatasi a Torino per i funerali di Cavour, nel 1862, fu accolta con grandi onori dai patrioti meridionali che sedevano nel neo-Parlamento italiano.
Tutta la vita di questa donna eccezionale fu dedicata al compimento dell’unità d’Italia che si concluse soltanto allorché Roma fu strappata al potere temporale dei papi.
A questo proposito la De Pace ancora una volta fondò a Napoli un nuovo Comitato di donne per Roma capitale, nel quale entrò anche la vedova dell’eroico patriota Pisacane. Nuovamente arrestata dalla polizia papalina mentre in treno, da Napoli, si recava a Firenze attraverso lo Stato Pontificio, fu immediatamente rilasciata per le vibrate proteste del governo italiano-sabaudo. Nella sua avanzata maturità Antonietta De Pace si dedicò assieme al compagno – assessore alla pubblica istruzione a Napoli, da lei sposato soltanto nel 1876 all’età di 58 anni (egli era più giovane di 13 anni) – all’attività educativa, soprattutto delle maestre, affinché, come lei sosteneva, creassero delle allieve preparate, come pure al soccorso delle bambine indigenti. La sua opera assistenziale non si limitò soltanto agli aspetti socio-economici, perché venne sempre suffragata dall’esigenza, spesso affermata, di migliorare culturalmente le donne, in particolare quelle del ceto più povero.
Antonietta De Pace “privata”
Antonietta fu soprattutto una donna « pubblica » la cui vita privata fu sempre e strettamente correlata e dipendente dai suoi ideali e impegni politici.
Anche il legame di profondi affetto e stima con i quali si legò al marito nacque e fu cementato dalla comune condivisione delle loro passioni politiche. Tuttavia attraverso la sua biografia traspaiono taluni caratteri di debolezza umana tipicamente femminile, che ce la rendono più emotivamente vicina. Il marito scrive che Antonietta spesso soffriva di mal di testa, di forti emicranie, accompagnate da fasi di profonda depressione generalmente avvertite allorché passava qualche raro periodo di inattività in attesa di ricominciare la lotta politica. Allora bisognava distrarla portandola a teatro che, assieme ai viaggi, era ciò che maggiormente le piaceva. Comunque i tratti distintivi del carattere di Antonietta sono quelli efficacemente descritti dal marito : « era una donna intelligente, animosa, segreta, assennata, prudente ed ardita » (B. Marciano, p : 32) : sono le qualità che più addicono a un vero e proprio leader di un periodo in cui la lotta politica non poteva svolgersi alla luce del sole.
Antonietta – per lo meno per gran parte della sua vita – non fu innamorata del compagno e futuro marito. Il suo amore fu il colonnello Luigi Fabrizi, coraggioso ufficiale garibaldino, che, gravemente ferito nel 1860 nei pressi di Napoli (a Capua), fu da lei amorevolmente e appassionatamente curato con una assistenza continua nell’ospedale in cui fu ricoverato per molti mesi (peraltro, il Fabrizi morirà nel 1865 a causa delle gravi menomazioni riportate). E nel 1866 Antonietta perderà nella battaglia di Bezzecca l’unico nipote maschio, figlio della sorella Rosa e dell’amato cognato prematuramente scomparso, che lei stessa aveva incoraggiato ad arruolarsi nei garibaldini (da ciò deriverà un angoscioso senso di colpa che perdurerà per tutta la sua vita).
Ma soprattutto Antonietta è una donna coraggiosa e anticonformista, che rompe con convinzione e per scelta con la sua vita pubblica privata e gli schemi abituali in cui era rinchiuso l’universo femminile. Innanzitutto la continua frequentazione di uomini, la grande libertà dei suoi numerosi spostamenti e poi il legame con un uomo molto più giovane di lei, e per giunta ex prete, ci fanno concludere che la De Pace abbia vissuto con una libertà quasi simile a quella di un uomo, dico quasi poiché non essendo nota la sua corrispondenza privata non si sa quale prezzo abbia pagato, poiché sicuramente è stato così.
Ciò ci porta a due considerazioni rilevanti :
se Antonietta ha potuto vivere in questo modo vuol dire che la società ottocentesca glielo aveva permesso. Pertanto in essa, almeno per quello che riguardava l’impegno politico, vi erano delle aperture all’universo femminile, certamente eccezionali, quasi trasgressive rispetto alla tradizionale situazione della donna, per di più meridionale. Questa considerazione è suffragata dalla constatazione che accanto ad Antonietta operarono attivamente e pericolosamente altre donne inserite nei circoli e comitati femminili,da lei diretti ;
si trattava sempre di donne sole, o perché rimaste vedove o orfane, o perché i loro congiunti erano rinchiusi nelle prigioni borboniche. La vocazione politica di Antonietta è a questo riguardo forse più precoce e più forte di quella delle altre sue compagne poiché si rivelò precocemente ed antecedentemente la morte di un suo congiunto. Si può forse pensare che per queste donne, così profondamente ferite nella loro vita privata, la società ottocentesca meridionale allargasse per loro qualche spazio delle sue spesse maglie ? E se ciò avvenne, i motivi avevano a che fare più con la pietas verso di loro o piuttosto con una specie di segreta ammirazione per il loro coraggio?
Sono domande alle quali finora non è stata data una risposta esaustiva.
Ma torniamo ad Antonietta e all’epilogo della sua vita, dalla quale si congedò con un tocco di signorile originalità (in fondo era un’appartenente alla ricca borghesia e nobiltà provinciale). Il marito racconta che il 3 aprile 1894, Antonietta, costretta a letto da una forte bronchite, gli chiese di bere dello champagne; questo fu reperito con estrema difficoltà, poiché, non essendovene a casa, ed inoltre era il giorno di Pasquetta, si dovette con grande difficoltà cercarlo in tutta Napoli. E il consorte scrive: « Trovato il vino, ella mi disse volerlo bere nel bicchiere a calice; e subito la contentai: ne bevve avidamente un primo; e dopo poco un secondo bicchiere…Ma in quello stato in cui ella era il vino la eccitò soverchiamente e si dette a discorrere cadendo poi in un profondo sonno».
Mi piace pensare che Antonietta abbia brindato alla sua vita così appassionatamente spesa, e che si spense la mattina del giorno successivo, all’età di 76 anni.
Maria Sofia CORCIULO