Il tema della riforma cattolica e dell’applicazione dei decreti tridentini nel Mezzogiorno ha avuto, fino alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, un posto marginale nella storiografia meridionale, dominata in gran parte dalla tradizione giannoniana e dalle tesi giurisdizionaliste dei riformatori napoletani della seconda metà del Settecento. Tale marginalità, a giudizio di Antonio Cestaro, è dipesa anche dalla discontinuità degli studi in materia e, fatta eccezione per pochi di essi, dalla loro impostazione decisamente tradizionale, legata a vecchi schemi di tipo controversistico o biografico-agiografico. Il primo vero tentativo di sistemazione generale di un tema così rilevante della storia ecclesiastico-religiosa, qual è quello dell’attuazione del programma tridentino e delle disposizioni romane nelle terre del Sud, fu rappresentato dal Convegno di studi di Maratea (giugno 1986), dedicato appunto a Il Concilio di Trento nella vita spirituale e culturale del Mezzogiorno tra XVI e XVII secolo. Organizzato dall’“Associazione per la storia sociale del Mezzogiorno e dell’area mediterranea”, erede del “Centro Studi per la Storia del Mezzogiorno”, già operante dal 1972, il Convegno, i cui Atti furono pubblicati qualche anno dopo, si propose non “di fare semplicemente una storia di vescovi, nemmeno dell’istituzione ecclesiastica e dei suoi decreti, ma di fare anche ricerca attorno a quel che la Chiesa ha rappresentato localmente nella vita religiosa, tenendo conto del contesto ambientale, antropologico, economico in cui essa ha operato”. L’impegno della Chiesa meridionale nel processo di tridentinizzazione, ma anche nella difesa delle proprie immunità ecclesiastiche, fu sottoposto dai relatori, attraverso sempre il recupero di una documentazione in passato trascurata (libri parrocchiali, stati d’anime, relazioni ad limina, atti sinodali), ad un procedimento analitico che oltre a mettere in risalto le sfasature del programma riformatore, ne rilevò anche gli aspetti “positivi”: fra il 1545 ed il 1630, la Chiesa cattolica compì anche nel Regno di Napoli un “grande sforzo costruttivo”, che, configurandosi come “impegno legislativo locale, tendente a ricondurre sotto il governo dell’ordinario diocesano le tradizioni, le autonomie e le antiche prerogative del clero, a disciplinare la formazione di questo stesso clero e ad assorbire le ultime resistenze del clero greco”, fece emergere l’immagine di un Mezzogiorno religioso tutt’altro che “chiuso, depresso, emarginato” (G. De Rosa). Ulteriori indagini da parte della successiva ricerca storiografica, volta sempre ad approfondire l’incidenza del Concilio di Trento nella società meridionale, furono poi dedicate alla centralità assunta dalla figura del vescovo nel processo di rinnovamento della vita religiosa post-tridentina, e alla funzione determinante assegnata all’assemblea sinodale nell’attuazione delle decisioni conciliari. L’importante seminario di studio, tenutosi nel 1993, sul tema Chiesa e società nel Mezzogiorno moderno e contemporaneo avrebbe poi rappresentato un momento di riflessione sulla problematica e di confronto dei risultati fino ad allora conseguiti. La ricchezza della fonte sinodale venne ribadita, dunque, l’anno successivo ancora da Gabriele De Rosa, in un saggio apparso nel volume sull’età moderna della Storia dell’Italia religiosa, da lui stesso diretta insieme a Tullio Gregory e André Vauchez. Lo storico, utilizzando i principali e importanti codici di lettura del “vissuto religioso” (oltre ai sinodi postridentini, visite pastorali, libri parrocchiali, pellegrinaggi e rituali delle benedizioni), ricostruiva il composito quadro della vita ecclesiastica e religiosa del Mezzogiorno, verificandone: il conflitto fra la Chiesa e le politiche giurisdizionaliste, le posizioni contestative del clero locale; il misoneismo del parroco, la litigiosità del laicato; la lentezza del processo di istituzionalizzazione del pellegrinaggio; l’esaltazione collettiva e l’agitato colloquio con il santo. L’analisi della letteratura sinodale, in particolare, confermava il persistere di particolari credenze religiose, il problema della acculturazione catechetica e delle condizioni di emergenza nelle quali si trovavano soprattutto le diocesi dell’interno.
Questi e tanti altri studi al riguardo (da chi scrive, sottoposti ad analisi ne La proibizione dei libri haeretici, vel de Fide suspecti nel sinodo diocesano di Gallipoli del 1661. La fonte, gli studi, la realtà locale, saggio pubblicato nel 2004 su “Itinerari di ricerca storica”, Università degli Studi di Lecce, Dipartimento di Studi Storici dal Medioevo all’Età contemporanea, XVIII, 2004, pp. 9-51) hanno dimostrato come, anche nel Mezzogiorno, una riforma di quella portata, destinata a regolare la vita religioso-ecclesiastica per circa quattro secoli, non coinvolse solo le strutture e l’organizzazione ecclesiastica, ma incise pure sulla società, sulla spiritualità, sulla cultura, sull’arte, sulla letteratura. E, in questa sede, lo dimostra ampiamente anche l'indagine condotta sugli unici atti sinodali superstiti della diocesi gallipolina in età moderna.
Le disposizioni tridentine e le proibizioni dei libri “cattivi” registrate nei vari Indici trovarono, in effetti, un’applicazione concreta anche nella diocesi di Gallipoli, specie nella seconda metà del secolo XVII, quando essa fu retta da un pastore attivo e zelante nella realizzazione di quei programmi, “prete molto erudito e savio […] austero ed esatto nell’impartir la giustizia”, quale Giovanni Montoya de Cardona. Lo spagnolo fu chiamato a reggere il 28 dicembre 1659, e per 7 anni, fino all’8 marzo 1666, anno in cui “santamente morì, avendo lasciato onorata memoria del suo governo”( B. Ravenna), una diocesi che poteva vantare un’antichissima tradizione di vita religiosa.
Non abbiamo notizie sufficienti a delineare la personalità del Montoya, specie negli anni che precedettero la sua nomina alla guida della cattedra episcopale di Gallipoli; informazioni utili si ricavano principalmente da note fonti quali l’Italia Sacra di Ferdinando Ughelli e la Hierarchia Catholica ad opera di Patrizio Gauchat, oltre che, naturalmente, dalle Memorie del Ravenna. Figlio del reggente Montoya e di Porzia Gentile, è indicato come nativo di Napoli (città in cui era allora il padre) e di “genere Hispano”, elemento del resto, questo spagnolo, tipico “seicentesco”, che anzi nella provincia raggiunge il suo acme proprio dalla seconda metà del secolo XVII agli inizi del successivo. Promosso “ad Ecclesiasticas dignitates ab Hispano Monarcha […], ut sacerdotium Altamurae, ac mitras Aquilanam, et Uxentinam”, e “non modo ob merita suae gentis, et praecipue sui genitoris, sed ob sua personalia” (Ughelli), venne appunto destinato, come trentasettesimo vescovo, alla cattedra di Gallipoli nel 1659, ricevendo una pensione annua pro personis nominandis (altro fenomeno, questo, che in tali anni presenta un notevole incremento) di 600 ducati. Uno dei suoi primi atti dopo l’insediamento fu quello di riconfermare come suo vicario Giuseppe Quintiliano Cuti, che aveva retto la sede vacante negli anni precedenti. Antonio Micetti nelle sue Memorie, scrivendo del Montoya, così notò di quest’ultimo: “Fu huomo dottissimo, non solo dell’una e l’altra legge, ma di belle lettere et Poeta”; e sempre di lui, nel parlare della morte di mons. del Bufalo: “fu acerrimo difensore della giurisdizione ecclesiastica, et amministrava rettamente la giustizia”. Anche il Ravenna ne sottolinea la spessa formazione: “Dopo i primi studj si determinò a quelli delle leggi civili e canoniche, e furon tali i progressi mercè la sua applicazione, che si laureò, ascese al Sacerdozio, e fu il più dotto tra i preti di Gallipoli allora viventi. […] Si può da questo formare idea della dottrina di tal nostro benemerito concittadino, specialmente nelle cose ecclesiastiche”; e più avanti: “[…] molto si diffuse in erudizioni, e notizie riguardanti la sua Patria”. Il Cuti è, tuttavia, particolarmente ricordato per aver scritto il primo sinodo diocesano gallipolino, indetto dal Montoya nel 1661, e poi “dato in luce sotto il nome del Vescovo”, il quale, “persona per altro austera esecutrice della Giustizia” (Micetti), “nell’adempimento dei suoi doveri cercò di far conservare ed accrescere la disciplina ecclesiastica” (Ravenna).
Il vescovo spagnolo, nel quadro strategico controriformista di ripresa energica dell’azione della Chiesa nell’ambito della società, – dopo aver compiuto, l’anno precedente, un’accurata visita pastorale locale e personale, desideroso di conoscere nei dettagli le caratteristiche della propria diocesi, compresi “vitia” e “virtutes”, ed insieme il quadro generale dell’apparato ecclesiastico, sul quale contava per ripristinare l’austerità dei costumi e l’osservanza delle prescrizioni di fede, – si era, difatti, preoccupato di convocare per i giorni 16, 17 e 18 del maggio di quell’anno il sinodo diocesano, i cui atti, stampati poi a Napoli nel 1662, passiamo ad esaminare. In quei tre giorni di lavori, innalzando pie preghiere a Dio, “pro foelici Synodi successu”, il Montoya pensò di trattare e decretare provvedimenti relativi “ad Animarum salutem, Clerique disciplinam, et Divini cultus incrementum, totiusque Dioecesis reformationem pro temporum, et rerum opportunitate”. Infatti fu desideroso di “ingerere” “ea[…] omnia admonendo, iubendo, castigandoque in Fidelium Animis […], quae decent sanam doctrinaman, quaeque in ijs praecipue elucere debent, qui Christianae militiae nomen dedere”; e, onde prevenire scuse di qualsiasi natura, precisò “ne igitur quisquam aliquo ignorantiae clypeo se tueri possit, et ij qui in hac Nostra Cathedrali dignitatibus, et officijs praesunt, sedulo se preparent, atque statum ipsius Ecclesiae considerent, et quae illis ad amplificandum divinum cultum, ac Populi salutem necessaria videbuntur, Nobis referant”. Ordinò, quindi, che partecipassero al Sinodo “omnes, et singulas Dignitates, Subdignitates, Canonicos, Capitulares, et Portionarios Nostrae Cathedralis Ecclesiae, Parochum quoque, eiusque Substitutum necnon Praesbyteros, Diaconos, Subdiaconos, et Clericos, tam Beneficiatos, quam non Beneficiatos, Abbates, seu quocumque alio nomine censeantur”, precisando che fossero presenti “a principio Congregationis usque ad fìnem […], sub poena ducatorum sex pro quolibet, piis usibus applicandorum, et in iuris subsidium excommunicationis, alijsque arbitrarijs”. Invitò poi tutti gli interessati a partecipare ai lavori indossando i paramenti propri della carica ricoperta: “Accedant autem omnes in habitu, et tonsura cum superpellicijs mundis, et biretis, alijsque indumentis pro conditione, et officij dignitate, eoque cultu corporis, qui deceat Ecclesiasticos viros ad adiuvandam non minus exemplo, quam opere sacram functionem hanc”. Infine, prima di addentrarsi nell’analisi specifica delle tematiche, ribadì che era suo fermo proposito “Sacrosancti Tridentini Concilij decreta […] observanda”; si fissò, dunque, ai vari componenti del clero diocesano un limite massimo di un bimestre, “ex quo in eius possessionem venerint”, per “Catholicam Fidem profiteri”, “non modo coram Nobis, sive nostro Generali Vicario, sed etiam coram Capitulo”.
Anch'esso fedele alle decisioni conciliari, il documento sinodale gallipolino del 1661 – l’unico che l’Archivio della Curia Vescovile di Gallipoli conserva –, fra le varie disposizioni su argomenti e problemi particolarmente scottanti che richiamavano spesso la normativa tridentina, presentava pure significative norme in materia di controllo librario nei capitoli III e IV del titolo V (De Haereticis cavendis, et denuntiandis, eorumque libris prohibitis). La rubrica era preceduta dai capitoli sulla professione, dottrina e predicazione della fede cattolica, sull'invocazione e venerazione delle reliquie dei santi e delle immagini sacre, nonché da un capitolo sui giorni festivi e la loro osservazione, e dal capitolo sui divieti alimentari; poi, al decreto qui oggetto d'esame, relativo agli eretici da catturare e denunziare e ai loro libri proibiti, seguivano quelli sulla stregoneria, i sortilegi, le superstizioni, gli esorcismi e i “nuovi miracoli”, e quelli sulla bestemmia, sulle false testimonianze e sui libelli famosi. È tuttavia vero che la scelta della collocazione di questo tipo di rubriche poteva dipendere tanto dai modelli sinodali adottati dal vescovo, quanto dalle sue propensioni dottrinali e disciplinari.
Il titolo V si apriva con le prescrizioni stabilite dall’assemblea in materia di eresia, che, rivolte a tutti i fedeli, insistevano sulla necessità di “cavere” e, all’occorrenza, “denuntiare” i suoi propagatori, dal momento che “non satis est bonum semen seminare, nisi inimico homini prohibeatur, in eodem agro superseminare zizania”. Le direttive esortavano, poi, “sub poena excommunicationis”, a non avere relazioni con forestieri venuti in città qualora essi professino teorie ereticali, le quali “caute sunt tractandi, et quam citius expediendi”. L’attenzione del sinodo si spostava, così, ai libri scritti e pubblicati dagli eretici, “quorum lectio Christianae vitae puritati plurimum affert detrimenti” e il cui “sermo […] ut Cancer serpit” ed è “mollitum” “super oleum” e “iaculum”. I fedeli erano, dunque, obbligati a ignorarli, data la loro pericolosità e capacità di indurre in errore tutti indistintamente, sia gli individui “ignari” sia quelli dotti ed eruditi. Le direttive in materia erano introdotte dai vari “statuimus”, “interdicimus”, “prohibemus” e “sancimus”: si vietava a chiunque il possesso, la lettura e la vendita dei “libros, haeresim aliquam continentes, vel de haeresi suspectos, vel a Summis Pontificibus, sive a Sacris Concilijs prohibitos, et in Indice prohibitorum descriptos […], [libros] de quavis materia tractantes, ab haereticis Authoribus ab Ecclesia damnatis compositos, sive non ab haereticis, sed de haeresi, vel falsa Religione tractantes […]. Libros etiam, qui res lascivas, seu obscaenas ex professo tractant, narrant, aut docent, vel turpia, et ad peccatum provocantia, bonosque mores corrumpentia continent”.
In generale, dunque, e semplificando, il divieto riguardava tutti i “libros hereticos, vel de Fide suspectos”, che venivano proibiti come cattivi o pericolosi per l’integrità della fede e dei costumi, e che i fedeli, senza una speciale licenza, unicamente rilasciata dagli organi inquisitoriali locali, non potevano né leggere, né conservare. Si decideva, però, che “licet vero huius generis aliqui, ab Ethnicis conscripti, propter sermonis elegantiam, et proprietatem tollerari possint”; ma, come è stato riscontrato in altri documenti analoghi, si rammentavano le modalità di svolgimento dell’attività didattica dell’insegnante elementare, che, nelle sue lezioni ai bambini, “nulla […] ragione” dovrà leggere ed interpretare tali scritti, astenendosi quindi dai quei “colloquia mala” capaci di corrompere i “bonos mores”. E ciò dal momento che “multo magis perniciosum erit, si ex huiusmodi caenosis lacunis tenera adhucaetas bibere affuescat”. Da qui ne conseguiva che l’importazione e l’esportazione dei libri sarebbe dovuta avvenire avvenire previa autorizzazione rilasciata dal Vescovo o dal Vicario generale. Ma oltre al libro a stampa, la cui pericolosità detta le proibizioni più severe, molta attenzione era anche dedicata alle altre forme di divulgazione di idee dai contenuti “suspecti”. Era difatti, ugualmente vietata, “ullo pacto” e priva di “nostra expressa licentia” e dell’esame “authoritate nostra”, la circolazione, e tanto meno la lettura in pubblico o in privato, di manoscritti, contenenti opere in versi o in prosa, di “problemata” e di “theses de quacunque scientia […] sive alibi impressas, sive etiam manuscriptas, disputandas, vel substinendas”.
Nel complesso, imposizioni particolarmente rigorose in materia di censura e libri proibiti erano, dunque, previste nell’atto sinodale gallipolino, aggravate ancor più dalla comminazione di pene e condanne reclamate in caso di violazione delle norme dettate. I “contrafacientes”, difatti, sarebbero stati puniti, a seconda della gravità della colpa commessa, “sub poenis, et censuris, in Concilio Lateranensi sub Leone X et in Indice Clementis VIII contentis, praeter quas pro nostro etiam arbitrio”; con l’“excommunicatio”, “quae in Bulla Coenae Domini continetur”; con la non assoluzione “a Confessarijs”, e successiva punizione inflitta “severe” “a Nobis”; con la pena “amissionis librorum”; “sub poenis in Indice praefato statutis, et comminatis, alijsque arbitrarijs”; “alioquin gravissimis poenis iuxta Sacros Canones, et pro arbitrio nostro, modoque culpae punientur”; ed ancora: con altre condanne “in Sacris Canonibus, et in Costitutionibus Pij V statutas, et innovatas”, o che “in Tridentino Concilio et in varijs Summorum Pontificum Consitutionibus, presertim Clementis VIII, continentur, et innovantur”.
Difficile, tuttavia, stabilire se quei richiami, con i relativi ammonimenti e punizioni, rispecchiassero una situazione di reale “degrado” della diocesi di Gallipoli, oppure costituissero, semplicemente, uno stimolo a quel processo di rinnovamento della Chiesa già iniziato nel secolo precedente. In effetti, se il sinodo, per le sue finalità istituzionali, è destinato a rispondere alle esigenze della Chiesa locale, e, di conseguenza, ad essere ritenuto una fonte storica ideale per verificare i modi di applicazione del Tridentino e per conoscere le condizioni religiose, culturali e sociali di un determinato territorio, in realtà esso non sempre sembra rispecchiare la vita reale di un contesto diocesano: lo dimostra l’atteggiamento della Chiesa legiferante, teso più a giudicare che ad interpretare e conoscere. Fatta questa breve puntualizzazione sul sinodo quale fonte fedele di informazione sulla realtà, non solo religiosa, locale, e tenuto conto principalmente degli avvertimenti storico-metodologici offerti, in tal senso, da Gabriele De Rosa, mi sembra di poter concludere che i suoi atti saranno veramente utili solo se confortati e sostenuti da altra documentazione, sia analoga (precedente, coeva o successiva), sia soprattutto meno legata al vincolo della schematizzazione tridentina. Ma è, in primo luogo, nell’applicazione quotidiana, nei rapporti che si sarebbero costituiti, nel nostro caso, tra responsabili del controllo e librai, o nella percezione di quel clima da parte degli autori e dei lettori che si recupererebbe certamente il senso dell’efficacia di un tale rigido e poderoso intervento disciplinare. In questa direzione, le confessioni, strumenti di governo dei comportamenti, i processi penali e le scomuniche, laddove conservati, testimonierebbero in parallelo forme di sorveglianza coercitive e persecutorie, adottate contro chi non avesse aderito alle prescrizioni ecclesiastiche o le avesse apertamente violate.
Di certo è che leggere materiale proibito, anche quello che pur coprendosi di “riputazione cattolica” sia ugualmente risultato pieno di “inesattezze e di funestissimi errori”, rimase a lungo un’operazione delicata. Ma la necessità di soddisfare determinati appetiti culturali, di dare una risposta a continui interrogativi scientifici o di coltivare certi orientamenti politici è sempre stata più forte di qualsiasi ostacolo, se ancora agli inizi del secolo scorso Pio X, rivolgendosi ai pellegrini veneti, così pronunciava: “Ripeto a voi, Sacerdoti: Non vi fidate di certi giornali, si dicano pur cattolici, di certe riviste, si dicano pure cattoliche. Meno giornali leggerete, meglio starete”.
Milena SABATO