La celebrazione del Natale dei cristiani, festa liturgica di primaria importanza, si fa risalire attorno all'anno 200. La data del 25 dicembre fu fissata dalla Chiesa di Roma nel 336 e fu probabilmente scelta per due ragioni: perché era molto vicina al 6 gennaio, giorno in cui già si celebrava nelle comunità cristiane orientali una festa che comprendeva la commemorazione della Natività, e perché coincideva con il solstizio d'inverno, che i romani chiamavano natalis invicti solis, la nascita del sole invitto, ed era una celebrazione profondamente radicata in numerose culture antiche. Nel Medioevo il Natale si affermò come la grande festa popolare oggi conosciuta: in Germania si diffuse l'abitudine di celebrarlo addobbando un albero di abete; in Italia san Francesco ricostruì (forse nel 1223) la scena dell'umile nascita del Salvatore in una grotta nei pressi di Greccio, realizzando, quindi, il primo presepe. Della sua diffusione in tutta la cristianità parlano numerosissimi libri: in Francia si chiamò creche (la mangiatoia), in Germania Krippe, nei paesi di lingua inglese crib o manger, e in Spagna belen ossia Betlemme. Con la Riforma protestante sarebbero cominciate le controversie, anche sul Natale: Lutero, in Germania, fu un grande devoto della figura di Gesù Bambino; ma in Inghilterra, dove la divisione tra anglicani e protestanti di altre denominazioni erano diventate profonde e radicali, il Natale fu abolito durante il Protettorato di Oliver Cromwell, sulla base del fatto che non aveva alcun fondamento biblico; la stessa cosa era già accaduta in Scozia e nell'America puritana. Nella Nuova Inghilterra fu reintrodotto solo nell'Ottocento (rimanendo per due secoli un giorno di lavoro come tutti gli altri), e su di esso Charles Dickens scrisse la storia più famosa dell'intera letteratura, e cioè Christmas Carol (1843), contribuendo con i suoi racconti e i suoi personaggi a definirne i contorni e l'atmosfera, e rendendo noto come quella festa (seppur antica quanto la nostra civiltà) ed i suoi “simboli” (l'albero addobbato, l'attesa notturna, l'agrifoglio sempreverde, ecc.) fossero appunto un'invenzione dell'epoca vittoriana, o, per meglio dire, il risultato di diverse tradizioni (anche transatlantiche) risalenti alla metà dell'Ottocento. Lo stesso dicasi per il personaggio di Santa Claus, un gioviale e rassicurante signore vestito di rosso che altri non era se non il vecchio san Nicola di Bari, il cui nome gli olandesi della colonia di New Amsterdam (New York, appunto) avevano a suo tempo tradotto in Sint Nikolaas. Una figura, questa – è bene ricordarlo –, che se, da un lato, non sarebbe mai riuscita a vincere l'agguerrita concorrenza dell'Epifania, dall'altro avrebbe talvolta destato qualche sospetto, se si pensi, ad esempio, alle accuse di paganesimo dei cattolici francesi e, nel 1951, alla condanna ad essere bruciata in effigie nella citta' di Digione. Al Natale, dunque, Dickens (il quale nel 1849 avrebbe anche scritto, per i propri figli, una vita di Gesù, The Life of Our Lord, rimasta inedita fino al 1934, e di recente tradotta e curata da Marco Respinti per l'editore Gribaudi) avrebbe dedicato cinque lunghi racconti: Christmas Carol, The Chimes, The Cricket on the Hearth, The Battle of Life e The Haunted Man, che, scritti nel corso degli Hungry Forties, il decennio della fame, appaiono in realtà come un appello all'altruismo e alla carità cristiana nei confronti dei bisognosi.
Per quanto concerne il Mezzogiorno d'Italia, piuttosto complessa è apparsa per gli storici la questione relativa al significato generale della celebrazione natalizia in tale contesto. Le importanti pagine di Giuseppe Galasso relative alla festa nel Mezzogiorno (in L'altra Europa, Milano 1982, pp. 121-142), abbandonando un precedente approccio allo studio dei momenti e degli aspetti di rilievo nella vita sociale del paese, che attribuiva ad essi “significati [...] sovraccarichi di simbolismo”, hanno fissato alcune linee indicative di una lettura certamente sempre “meridionale” e realisticamente “allegorica”, ma “non più meridionale e più allegorica di quanto sia congruo al contesto meridionale e al contesto in cui il Mezzogiorno stesso si ritrova”. In quella sede, tra l'altro, Galasso, riportando, al ciclo calendariale delle feste la duplice ed estremamente problematica polarizzazione del trasgressivo e del penitenziale (questi, per lo storico, i due significati meridionali della festa ritenuti prevalenti), sottolineava la non casualità dei cicli festivi (“le feste si chiamano l'un l'altra”, osservava Elias Canetti), e, tenuto conto della dualità stagionale tipica del mondo latino e ancor più di quello meridionale (con vierne e staggione il dialetto napoletano richiama le due sole stagioni dell'anno, e cioè l'inverno e l'estate, la stagione per eccellenza), individuava due tipi di celebrazioni, largamente complementari l'un l'altra: quella rituale, dell'inverno, e quella festiva, dell'estate. E tenuto conto della completa corrispondenza delle stesse (anche di significati) col ciclo agrario, nonché con quello liturgico, osservava come il rito comportasse una celebrazione orientata alla commemorazione, al raccoglimento, alla pietà, alla preparazione, all'attesa; mentre la festa rappresentasse la celebrazione dell'attualità, dell'esultanza, della glorificazione, della realizzazione, della raccolta.
Un carattere di pietà e di raccoglimento si attribuiva, pertanto, alle celebrazioni natalizie, la cui cifra era espressa bene dalla grande fortuna del presepe in tutte le zone del Mezzogiorno, rivelandosi in ciò cospicuo l'influsso francescano sulla religiosità meridionale (seppur bilanciato dalla “meridionalizzazione” della pratica). Così, intorno al presepe si sviluppa una serie di figurazioni canoniche e rappresentazioni drammatiche, che molto spesso caratterizzano profondamente l'area napoletana, diventando una tradizione popolare tra le più vive, conosciute e partecipate.
Il momento storico in cui si inizia a definire il presepe come articolata rappresentazione plastica della Natività si colloca nel secondo Quattrocento, con figure solenni ed essenziali che invitano ad una religiosità raccolta (si pensi ai presepi dei fratelli Pietro e Giovanni Alemanno per la chiesa di S. Giovanni a Carbonara, a quelli per le chiese di S. Eligio e dell'Annunziata, o a quelli di Giovanni Merliano da Nola per la chiesa di S. Maria del Parto). Nel corso del Cinquecento, secolo in cui fiorirono in Napoli, con maggiore evidenza, il culto e l'arte del presepe, compaiono dei mutamenti: qualche timido accenno al paesaggio, ed i cani, le pecore, le capre, oltre all'asino e al bue da sempre affiancati alla sacra famiglia. Sono presepi, già questi, che seguono la struttura compositiva tipica di tutta l'area meridionale: in basso la grotta con angeli e pastori, in un piano superiore il sacro monte con i pastori, le greggi e qualche angelo in volo, in lontananza il corteo dei Magi. Nel secolo successivo si comincia a delineare la specializzazione dell'artefice di pastori, come testimonia l'attività di Michele, Aniello e Donato Perrone, quest'ultimo, autore, insieme a Michele, del presepe del viceré conte di Castrillo, che, commissionato ai due fratelli nel 1658, appare come il più ricco finora tramandatoci, comprendendo 112 elementi. Altro specialista in questo genere di lavori fu lo scultore Pietro Ceraso a cui fu affidato l'unico presepe tardo seicentesco documentato, quello delle monache di S. Chiara del 1684. All'inizio del secolo XVIII il presepe a figure mobili, ora allestito non più solo nelle chiese ma anche nei luoghi privati, aveva già una sua configurazione ben precisa. Le tre sequenze narrative della Nascita nella grotta-stalla, dell'Annuncio dove l'angelo in un alone luminoso diffonde la Novella tra i pastori addormentati e le greggi, e della Taverna con gli avventori che banchettano all'aperto, si arricchivano di nuovi particolari negli episodi di contorno, finalizzati a creare meraviglia e diletto tra i visitatori. Inoltre, a sfatare la leggenda del successo esclusivamente popolare di questo nuovo genere artistico, sono state le notizie della Gazzetta di Napoli, che riportano più volte durante il periodo austriaco (1707-1734) la visita dei viceré ai presepi napoletani. A questo periodo risale poi il cambiamento del significato simbolico del presepe, che allontanatosi progressivamente dalla sua iniziale intonazione mistica, dopo i primi decenni del Settecento si qualificherà come una rappresentazione spettacolare di tono profano, tipica espressione di quella società laica e mondana che lo aveva prodotto. Durante l'età di Carlo di Borbone (1734-1759) la rappresentazione plastica della Natività, con le scene ad essa collegate, invase le dimore private degli aristocratici e dei ricchi borghesi, sempre più intenzionati ad accrescere la spettacolarità delle loro raccolte. Allo stesso Carlo III di Borbone si attribuisce il merito di aver iniziato con gusto finissimo il presepe settecentesco, che costruiva con le sue mani e con l'aiuto della moglie Amalia. Ed avrebbero mantenuto viva la tradizione i successori Ferdinando IV ed il principe ereditario Francesco (che fecero allestire presepi a Caserta e negli altri siti reali dove intendevano trascorrere il Natale), come pure Ferdinando II con un magnifico presepe nella reggia di Caserta. Durante il decennio francese restò immutata la tradizione di visitare ed allestire presepi.
Stranamente, la storiografia relativa ad un fenomeno di cultura così caratteristico e vasto, quale appunto fu il presepe napoletano, appare piuttosto povera di indagini storiche, teologiche, e, soprattutto, sociologiche, concentrandosi spesso sullo studio dei presepi annuali costruiti con le proprie mani dai due più grandi santi napoletani, Alfonso e Maria Francesco, o da Carlo di Borbone e Amalia di Sassonia. Di certo è che, a giudicare dai pochi presepi superstiti (tra questi, il bellissimo presepe donato dal Cuciniello alla certosa di San Martino nel 1879 e conservato in quel museo) e dai frammenti di altri – come sottolineato da Romeo De Maio –, ad essere espressi più di frequente erano non i concetti del mistero dell'Incarnazione, e cioè il cammino del Verbo verso gli uomini e di questi verso di Lui, ma i temi della corrente vita sociale: la mendicità e la cuccagna, i vicoli e gli schiavi, i lazzari e le taverne imbandite, l'opera buffa, il nuovo Ordine cavalieresco di s. Gennaro e la moda dello “ struscio ” (ben evidenti nelle vesti dei Re magi e delle dame), l'iconografia controriformistica e gli scavi di Ercolano. Il presepe settecentesco, in particolare, appariva come un palcoscenico (come osservò anche Goethe), dove si svolgevano, palesi o allusive, le scene e i sogni della vita concreta. La Natività, con la capanna relegata in solitaria disarmonia con tutto l'immenso contesto, appariva più un pretesto anziché il nodo di un tema e di una vicenda sacra.
Ad ogni modo, nello studio di Galasso, la collocazione calendariale del Natale si rivelava, di importanza fondamentale, sia nel quadro di una interpretazione volta a richiamare la presenza di “elementi cultuali millenari” e la dipendenza del Cristianesimo da miti e riti pagani ripresi ed adattati, sia nel far emergere, in sede di analisi specifica, una chiave di lettura che accomunava tutti i rituali di questo periodo ai rituali funebri. L'avrebbero provato “il carattere notturno di molte feste, la presenza di giochi lascivi, la presenza di figure rituali come il cacciatore e il pescatore, di psicopompi come l'Arcangelo e san Giuseppe, di tematiche come il viaggio notturno in barca, come la fuga in Egitto ..., come il viaggio dei Re Magi, come la stessa apparizione della cometa”. Naturalmente, lo spirito cristiano di tali celebrazioni era fuori discussione, manifestandosi tanto “nella spiritualizzazione e idealizzazione della simbologia del dolore e del riscatto”, quanto nella forte “destorificazione” della vicenda dell'Avvento (a vantaggio di una esaltazione della sua unicità e irripetibilità storica effettiva), come pure nella versione assolutamente intimistica e familiare con cui l'insieme delle celebrazioni viene rappresentato e vissuto.
Il complesso della celebrazione natalizia, così come prospettato da Galasso, è, pertanto, assai chiaro, a tal punto da far comprendere anche il minore rilievo attribuito, in un simile contesto, alla celebrazione della fine dell'anno civile (31 dicembre) e dell'inizio del nuovo (1 gennaio), la quale, rispondendo molto meno di quella dell'anno liturgico cristiano alla percezione esistenziale caratteristica di società come quella del Mezzogiorno, appare appunto “schiacciata” fra le due più eminenti del Natale e dell'Epifania. Del resto, solo per un'epoca relativamente recente (più o meno la metà del secolo XIX) si può dire che la celebrazione del san Silvestro abbia cominciato ad assumere un più netto rilievo, evidenziando aspetti celebrativi (ad esempio, i grandi fuochi artificiali) dalle complesse simbologie specifiche, ma per lo più, molto spesso, derivati da un uso riservato originariamente al Natale.
Milena SABATO