Cultura e società nella Parabita cinquecentesca

Uscita, malconcia, dal conflitto franco-spagnolo, dove il suo barone filofrancese, il Conte Francesco del Balzo, l’aveva cacciata nel 1528, Parabita assapora per tutto il restante secolo XVI un periodo di pace e di relativo benessere.
Saldato il debito di 400 ducati, che il fuggiasco Conte aveva contratto con Gaspare de Leo; ed estinto, nel 1530, il vincolo di altri 300 ducati l’anno in favore dell’Università di Gallipoli per i danni cagionati a quella Città dalle scorrerie dei Francesi, rassicurata la popolazione e ricomposta la vita sociale, Parabita ritornava ad essere una bella gioia ( es tierra fertilissima de todas cosas que es come un jardin y tiene toda buenas qualidadfes y es una bella joja), sulla quale appuntava lo sguardo Pirro Castrista, che la otteneva nel 1535.
Il barone Pirro Castrista è stato il feudatario che nel Cinquecento ha arricchito l’Università di Parabita di fermenti culturali e sociali, i cui risvolti la storia locale ha registrato per tutto il Sei e Settecento. Uomo di vasta cultura umanistica, tanto da essere lodato dal Galateo con una epistola dedicatoria, Pirro Castrista ha lasciato infisso il nome alla Terra di Parabita, che ancora oggi lo ricorda nella denominazione di un’antica masseria, in opere d’arte, di carità e di sviluppo economico e sociale.
Data infatti al sec. XVI l’assurgere di Parabita ad una posizione di preminenza nei confronti dei paesi limitrofi, nonché il suo ruolo di prestigio in tutto il Basso Salento.
Già nello stesso secolo il nome di Parabita aveva varcato i confini della piccola terra con due suoi figli: Antonino Lenio e Frà Dionisio Volpone (al secolo Antonio): poeta il primo, vissuto alla corte ugentina di Francesco Del Balzo e autore di un’opera epico-cavalleresca (L’Oronte gigante); e architetto l’altro, oltre che predicatore di chiara fama, progettista della bitontina Chiesa di S. Nicola.
Da umanista e uomo del Rinascimento, Pirro ha voluto lasciare l’impronta della sua cultura nel portale laterale della Chiesa di San Giovanni Battista, chiamando a scolpirlo il leccese Gabriele Riccardi, e nell’altro portale di Palazzo Castrista fatto edificare nella maggiore piazza del paese.
La costruzione del nuovo palazzo, ad angolo tra piazza Castello e piazza S. Leonardo, dava il via al tracciato di due strade, Immacolata e S. Nicola, sulle quali per tutto il Cinque e Seicento si affacciavano altre case palatiate, che oggi costituiscono il centro storico di Parabita.
Ma la costruzione dell’abside della Chiesa di S. Giovanni Battista, sulla cui volta Pirro ha lasciato impressa l’arma di famiglia, restringeva piazza S. Leonardo che però trovava respiro nella piazza Montella che lambiva il fossato del Castello, a sud. Palazzo Castrista, peraltro, guardava altre due arterie che portavano alla Porta di Lecce (a nord) e alla Porta di Gallipoli ( ad ovest).
Questa rete viaria principale che confluiva in piazza Castello e che immetteva agevolmente nell’abitato delle tre porte che chiudevano la cinta muraria, dava un volto nuovo al paese richiamando nelle sue mura quanti sin dall’epoca di Giovanni de Tilio (1270) avevano preferito vivere nelle campagne per meglio sfuggire alle vessazioni dei baroni.
Così Parabita, intorno al 1545 toccava i 900 abitanti ( tra cui 25 forestieri) dediti in massima parte all’agricoltura e all’artigianato, con la presenza di un nutrito clero regolare e secolare, di un notaio (Antonio Abbaterrico), di due medici, di uno speziale, di un cancelliere e di un becchino.
Una università che si andava organizzando con l’occhio vigile ai bisogni sociali e alle esigenze primarie del popolo, per il quale era stato aperto uno spaccio dove era facile reperire un po’ di tutto quello che la produzione locale e gli scambi con le popolazioni dei paesi limitrofi potevano offrire. Vi erano panetterie, non essendovi jus prohibendi per il pane e tanto meno per il vino, di buona qualità, che veniva venduto a mezza cinquina la caraffa. Vi erano pure macellerie fornite di tutte le qualità di carni (raramente però si trovava la carne di vitello) e in particolare di piccioni selvatici, di cui v’era una gran quantità. Nelle macellerie si vendevano anche le uova.
Quasi giornalmente era possibile trovare pesce fresco che veniva portato da Gallipoli, e in mancanza di quello fresco si poteva comprare, nella bottega dell’Università, tonno sott’olio, sarde salate e qualche volta baccalà.
Fiorente era poi l’arte della tessitura i cui panni, colorati di verde e di turchino, erano molto apprezzati sui mercati dei paesi viciniori, così come era ricercata la bambagia di Parabita, che si coltivava in gran quantità, e le angurie di Parabita, pure prodotte su vasta scala, di squisito sapore tanto da essere ricordate da Vincenzo de Castro nel suo ‘Gran Dizionario Corografico dell’Europa’.
Una società, quindi, civile nei costumi e per certi apetti affrancata e libera, amata e incoraggiata, per la prima volta nella sua storia, da un barone che, per cultura, nobiltà d’animo e senso religioso della vita, incoraggiava ogni forma di attività e di cooperazione per il miglioramento della Comunità, come aveva dimostrato a proposito dell’erigendo ospedale del SS. Crocifisso, che aveva dotato di un legato di 5 ducati l’anno per il ricovero di famiglie povere, in favore delle quali aveva pure legato 6 ducati l’anno per maritaggio di una povera zitella, legato fatto proprio dai suoi successori e dagli altri baroni succedutisi nella casa feudale di Parabita, fino all’ultima duchessa Lucia La Greca.
Coronava questa vita sociale la presenza in Parabita, sin dal 1405, dei Frati domenicani che officiavano la Chiesa di S. Maria dell’Umiltà e, nell’adiacente convento, tenevano cenacolo di cultura accogliendo quanti volessero alfabetizzarsi o consultare i testi della biblioteca, non trascurando peraltro di prodigarsi in favore dei bisognosi e dei derelitti. Sensibili ai problemi sociali, ogni anno il 15 di agosto, adunavano nel loro convento l’assemblea degli elettori per eleggere il Sindaco e i due Uditori.
Custodi del culto in onore di S. Maria de la Cutura, di cui custodivano due affreschi: l’uno quattrocentesco e l’altro del tardo Cinquecento, contribuirono largamente, con la predicazione, a richiamare pellegrini e devoti, che giungevano numerosi da ogni parte del Basso Salento per il giorno della festa, fissato, come oggi, quindici giorni dopo Pasqua.
Tenuti in considerazione, per il prestigio del bianco saio, dalla casa baronale, non mancarono di chiedere privilegi per il convento, che ottennero; e al tempo stesso, verosimilmente, favori per la povera gente, specie per quanto atteneva il pagamento delle decime in annate di carestia.
Tutto sommato, una vita sociale, quella della Parabita cinquecentesca, abbastanza progredita e per certi aspetti agiata, tanto che tutti andavano calzati, non essendovi molta povertà, con una popolazione laboriosa e profondamente religiosa.
Motivi questi, forse, che indussero Pirro a preferire come dimora il Castello di Parabita ad altri castelli dei suoi feudi, tanto da farlo ristrutturare, dal copertinese Evangelista Menga, nell’arco di tempo dal 1540 al 1545, facendovi pure consolidare le mura di cinta e le strutture del fossato, ormai inefficienti alla difesa (tiene muros y fosso flacos).
Quel Castello, situato nella parte alta del paese ( un bel castello al cabo alto de la tierra), che nel corso dei secoli aveva visto i maggiori feudatari del Reame di Napoli: da Ottaviano di Sanseverino a Ottino e Federico de Caris; da Gio. Antonio Orsini ad Anghilberto, Raimondo e Francesco del Balzo, e che nel 1561 vedrà spegnersi un barone, Pirro Castrista, che nella Parabita cinquecentesca aveva saputo interpretare per molti aspetti il ruolo di Principe e di uomo del Rinascimento.

Aldo DE BERNART