Sofia Stevens (Gallipoli 1845 - Napoli 1876), Canti, Napoli, 1879
Canti di Sofia Stevens è un libro antico perché è stato pubblicato nel 1879, quindi quasi 120 anni fa.
Ed è introvabile sia in libreria, perché dal 1879 non è stato mai più ristampato, sia in biblioteca. Se si fa la ricerca nelle principali banche dati bibliografiche italiane, l’SBN, ovvero Servizio bibliotecario nazionale, e nel meta opac Azalai italiano, che riunisce il posseduto di un circuito di biblioteche diverso dal primo, vi verrà risposto “nessun record trovato”.
Da qui una prima considerazione: la copia di Canti conservata nella Biblioteca comunale di Gallipoli, donata dalla madre dell’autrice, è un unicum nelle biblioteche italiane.
Ad onor del vero, da qualche tempo è reperibile in rete una versione digitale del volume, tratta dalla copia gallipolina. È disponibile sull’opac dell’ateneo salentino, ma consente una malagevole lettura. Le pagine sono state contrassegnate, dalla struttura che ne ha curato l’edizione digitale, in maniera, a mio parere, eccessivamente invasiva tale da renderne fastidiosa la lettura.
Canti, dunque, è un libro antico e introvabile e tuttavia le organizzatrici di questo incontro hanno ritenuto che fosse utile parlarne, promuoverlo all’attenzione generale, trovare con esso occasione per proiettarci nella Gallipoli di un secolo e mezzo fa, tra la gente l’abitava; incontrare Sofia Stevens, l’autrice del libro, e la sua vita dolorosa e sfortunata.
Ho condiviso questa idea e sono qui, ma non possiamo non iniziare il nostro viaggio in compagnia del libro da una domanda: perché si è così malamente conservato nel tempo?
È una circostanza relativamente frequente, almeno per una certa tipologia di edizioni o è un dato che indirettamente valuta la qualità del libro?
Escludiamo immediatamente la seconda ipotesi.
Letterati ed eruditi salentini contemporanei a Sofia, penso ad Emanuele Barba (1819-1887) o a Vincenzo Ampolo (1844-1904) non hanno esitano ad apprezzare i suoi versi e parlano di lei come poetessa. E se E. Barba, che ha conosciuto l’autrice ed era molto vicino alla sua famiglia, annoverandola tra i gallipolini illustri, possiamo credere che abbia voluto essere indulgente con lei. Così non può essere stato per V. Ampolo che non ha mai incontrato Sofia (“Povera morta! non ti vidi mai”, scrive). Ha avuto tra le mani il libro, è rimasto colpito dai suoi versi (e probabilmente anche dal destino dell’autrice) e l’ha grandemente elogiata.
Ne scrive in una poesia che è un omaggio aperto a Sofia di cui cita espressamente Ad un gelsomino.
Ma non è la china della valutazione dell’importanza letteraria o meno del libro che voglio percorrere.
Non è di mia competenza e non sono attrezzata ad apprezzare questo. Io mi occupo di storia, non di letteratura. Come lettrice comune trovo piacere ad accostarmi alle poesie di Sofia Stevens e, per il mio personale sentire, tanto basta. Questo accenno a Barba e ad Ampolo mi aiuta a dire che altri più autorevoli di me hanno riconosciuto un valore a questi versi.
Se dunque il libro è oggetto “rarefatto” ciò si deve evidentemente ad altre causali che possiamo più agevolmente prendere in considerazione se teniamo per fermo che il caso di Canti, di Sofia Stevens, non è isolato. Altre edizioni hanno condiviso questa sorte.
Ed è accaduto quando un volume sia stato tirato in poche copie e abbia avuto un circuito di distribuzione non commerciale: quando cioè ha raggiunto i suoi lettori attraverso canali “riposti”: la scuola, una associazione culturale o professionale o, semplicemente attraverso il dono agli amici.
Pensiamo alle edizioni dei testi delle “conferenze scolastiche” vere e proprie lezioni tenute presso le scuole, indirizzate ai docenti e agli allievi; o alle edizioni dei testi delle conferenze erudite, rivolte ad un pubblico colto, organizzate da un ente o un’associazione (molto attive a Lecce nel corso dell’Ottocento ed oltre sono state l’Associazione Giusti o la Dante Alighieri); alle edizioni delle allegazioni giuridiche (ovvero le esposizioni delle ragioni fattuali e legali accluse ad una istanza giudiziaria), ai “funeralia”: ovvero a quelle pubblicazioni “in memoria” di un congiunto (di densità più o meno estesa) che solitamente erano redatte nell’anniversario della morte.
Sono pubblicazioni di contenuto vario, accomunate dal non essere destinate al grande pubblico e quindi ad avere una circolazione ristretta ed un impatto circoscritto. Non sfuggirà che, in una prospettiva storica, questa specifica tipologia di pubblicazioni, che ancora qualche decennio fa si chiamavano “letteratura grigia” (prima che questa definizione fosse attribuita ad un’altra tipologia di edizioni), ha un’importanza documentaria rilevantissima. Avvia e consente la conoscenza e la ricostruzione di ambiti normalmente opachi per lo storico come la circolazione sociale delle idee; la trasformazione sociale dei sentimenti. Sono un bisturi in grado di entrare nel corpo vivo della società e di rivelarne i tessuti nascosti.
Tra le maglie fragili e frastagliate di questa tipologia di edizioni riescono a rendersi visibili - ed è un aspetto che professionalmente mi interessa molto - anche le donne, ora come soggetti di cui si parla, ora come autrici.
Scorrendo questo corpus di edizioni, ci si può imbattere in “narrazioni” di figure femminili rese attraverso un profilo biografico redatto da qualcuno (spesso una persona di famiglia o vicina ad essa) o attraverso le testimonianze di chi l’ha conosciuta e amata.
Da un certo momento in poi, in coincidenza di un’accresciuta diffusione dell’alfabeto (dapprima tra le donne di classe agiata) è possibile trovare edizioni a firma femminile: testi di conferenze di maestre e professoresse, edizioni della tesi di laurea o di altri testi legati alla formazione o all’esercizio della professione magistrale.
E’, insomma, almeno nel meridione d’Italia, il luogo dell’epifania della scrittura pubblica femminile. È in questa ottica con cui vi propongo di guardare questa sera a Canti.
Vorrei proporre questo libro come una testimonianza storica che ci introduce, attraverso l’esperienza intellettuale e di vita di Sofia Stevens al tema dell’accesso delle donne all’istruzione e della pratica della scrittura.
La storia di Sofia è, ovviamente, unica e singolare, come la storia individuale di ciascun uomo e ciascuna donna che abita o che ha abitato il pianeta. Non è, quindi, generalizzabile.
La sua appartenenza per nascita ad un milieu sociale e culturale liberale e cosmopolita rende Sofia, già così, eccezionale. Le giovani donne salentine della sua generazione hanno visto scorrere la loro vita all’interno di altre costellazioni sociali e culturali.
E tuttavia guardando la sua esperienza da vicino, conoscendo i suoi talenti, comprendendo le opportunità di cui ha potuto godere, cogliendo i sostegni culturali e affettivi che le hanno consentito di nutrire le sue inclinazioni, è possibile capire per contrasto, (a) quanto è potuto essere accidentato per le altre donne meridionali e per le altre donne salentine, anche di famiglie di rango, apprendere ed esercitare il leggere e lo scrivere; (b) quanto impervio ed inusuale poteva essere per una donna meridionale, anche ricca e coltivata, pensare di dare alle stampe i propri scritti.
La stessa storia di Sofia Stevens ci dice che scrivere, a metà Ottocento, per una donna, non significava perciò stesso decidere di pubblicare.
Teniamo ben fermo che Sofia non vide mai le sue poesie rilegate in volume. Canti è stato pubblicato postumo, per interessamento di una persona che le ha voluto bene, ma che non riusciamo ad identificare con certezza. La sua produzione poetica, dunque, ci è pervenuta non per volontà dell’autrice ma per sensibilità altrui.
Sappiamo che Sofia ha scritto anche altro. Il prefattore di Canti ed Emanuele Barba citano un testo in francese sull’educazione della donna, che non si sa se sia stato mai dato alle stampe e di cui non si trova traccia. Sappiamo che ha meditato di scrivere «un’opera sulla flora della provincia di Lecce» ma non sappiamo a che punto di elaborazione si è fermata.
Sulla scorta di questa premessa accostiamoci alle poesie di Sofia Stevens, prima però, ripercorriamo rapidamente la sua biografia. Quasi una necessità, visto che la sua poesia è stata ampiamente alimentata dagli affanni della sua esistenza tanto da divenire la dolorosa lingua del suo sentire quotidiano.
E’ di questo avviso l’anonimo curatore di Canti, tant’è che pone a premessa del volume un testo intitolato Brevi notizie intorno a Sofia Stevens. Quelle pagine sono divenute il riferimento l’elezione di quanti, durante i trascorsi 120 anni da quella edizione, si sono occupati di lei, anche in tempi recenti. Tra questi voglio segnalare, per motivi diversi due lavori. Quello di Maria Domenica Crety, una giovane maestra di Calimera che di lei scrive nel 1913 all’interno di una sorta di genealogia femminile salentina intitolata Donne celebri nella provincia di Lecce, e quello di Niky James che nel 1993, sulle tracce dei suoi conterranei nel Salento, ha posto la famiglia Stevens e Sofia al centro del suo libro Inglesi a Gallipoli.
E veniamo a Sofia.
Sofia nasce il 22 dicembre 1845. È la secondogenita del proconsole britannico a Gallipoli. Ovvero si trova a vivere nell'ambiente illuminato e cosmopolita allignato intorno al commercio portuale della città; clima a cui partecipa a pieno titolo anche la famiglia della madre di Sofia, Carolina Auverny. Antonio e poi Giovanni Auverny ricoprono l’incarico di proconsole francese.
La sua istruzione inizia in famiglia.
All’età di otto anni, come era prassi comune tra le famiglie aristocratiche e borghesi, entra nell'educandato annesso ad un convento. Si sceglie per lei quello tenuto dalle Figlie della Carità, in Galatina.
Ben presto, a undici anni, ne esce per proseguire la sua formazione a Napoli, nella Real Casa Carolina, ossia in uno tra i più stimati istituti di istruzione presenti nel Regno delle due Sicilie. Ha come insegnante, tra gli altri, Federico Villani che eleggerà a suo mentore; con cui sarà in contatto per tutti gli anni a venire; e che, con molta probabilità, è il curatore di Canti.
Nel 1860, a quindici anni, torna a Gallipoli. Continua i suoi studi in famiglia, non sappiamo se anche sotto la guida di qualcuno; ma già tre anni dopo è in viaggio in compagnia dello zio materno Giovanni Auverny, per quel Grand tour nelle capitali europee e nelle maggiori città d'arte italiane che, come d’uso, completava l'istruzione formale di un/una giovane inglese dell'Ottocento.
Fermiamoci un attimo: educandato religioso, educandato laico, studio individuale, viaggio come esperienza educativa. È un percorso di formazione assolutamente eccentrico e moderno, rispetto alle sue coetanee.
Nel 1865 - Sofia ha 20 anni - la sappiamo a Gallipoli nominata insieme ad Elisa Gasquet ispettrice delle scuole femminili. E’ un incarico onorifico, che non dà luogo a retribuzione e ci fa intuire quanto avesse a cuore le questioni inerenti all’educazione delle donne e all’organizzazione scolastica locale.
Due anni dopo, nel 1867 - Sofia ha 22 anni - muore il padre. È un tournant decisivo nella sua storia personale e nella storia della sua famiglia. Il fratello maggiore assume l’incarico di proconsole che era stato del padre e si ferma a Gallipoli; la madre e il resto della famiglia si trasferisce a Napoli.
Nel novembre del 1868 Sofia sposa Settimio Bartocci che segue a Taranto e poi a Bari. Non sarà un matrimonio felice.
Cinque anni dopo c’è la diagnosi di cancro al seno e il trasferimento per la cura a Napoli.
La malattia è contrastata senza successo con due operazioni chirurgiche. Ed è alleviata da un furore di studi e di poesia, tale che viene ricordata nel suo letto “coperto di libri”.
Sofia muore a Napoli il 10 agosto nel 1876, all’età di 31 anni.
La sua, dunque, è una vita breve e sfortunata. Come la riflette e la trasfigura nei suoi versi?
Le poesie pubblicate sono la risultanza della selezione della produzione poetica elaborata nel corso di 15 anni, ma non essendo versi datati non siamo in grado di coglierne la cronologia.
Noi seguiremo un filo tematico, che non tiene conto, tengo a ribadirlo, dei risvolti letterari del suo poetare, ma di quelli storico-documentari: sono stati scelti per quei varchi sulla sua realtà esistenziale e storica che sono in grado di aprire e di filtrare. Ne commento solo due che meglio rendono la proiezione proposta: le relazioni domestiche e la formazione intellettuale.
Quello delle relazioni affettive interne alla famiglia è tema ricorrentemente affrontato nei canti: sicché troviamo versi dedicati alla madre, alla sorella Elisa, al fratello Nino ecc. In Diletta memoria del padre mio è il sentimento filiale che lega Sofia al padre ad essere affrontato. Sofia ne scrive in memoria, ma non sappiamo quanto tempo dopo la morte di lui.
Il padre è presentato come figura carismatica ed esemplare. Lo è per il suo agire pietoso nei confronti dei “miseri”: nei confronti dei quali è capace di generosità e di compassione attiva. Ma è soprattutto la sua dedizione e il suo attaccamento a Sofia ad essere particolarmente narrato. Vengono toccati quegli aspetti che sono stati assolutamente cruciali per Sofia come per le altre donne della sua generazione ed oltre, ai fini della loro emancipazione culturale.
Dalla volontà dei padri, oltre che dai talenti delle figlie, dipendeva la possibilità per le giovani di progredire negli studi. Nell’incoraggiamento e nel sostegno dei padri, e più in generale delle figure maschili, hanno potuto concretamente crearsi gli stimoli e le opportunità a coltivare l’ingegno femminile (pensiamo nel caso di Sofia all’educazione nel collegio napoletano o al viaggio in Europa). Sofia ne è pienamente consapevole ed è riconoscente al punto da rimettere a lui, e non ad altri, l’impegno di dedicarsi agli studi ( “fervida coltiverò l’ingegno”).
Un altro aspetto nuovo e non secondario che va rimarcato è la confidenza. Anche in ambienti borghesi di epoca successiva, l’amore paterno è ruvido; magari intenso ma distaccato. Nel 1911, Clementina Martello chiude le lettere al padre con la formula: “vi bacio la mano benedetta la vostra Clementina”.
Con Alla mia stanzetta dei Cuti, entriamo nel cuore insieme delle atmosfere domestiche gallipoline, delle sue predilezioni di lettura, dei modelli di femminilità che ha coltivato.
Si citano i suoi autori e personaggi preferiti: Pindemonte, Dante, Aleardi, Guglielmo Tell (appreso da Rossini?), Leopardi, il profeta Geremia.
Interessanti le figure femminili citate, che sono state in sommo grado donne volitive e d’azione: Giovanna d’Arco, Daria, Camilla, figlia dei re dei Volsci.
La formazione storica e letteraria è estesa: non sappiamo quanto profonda, ma è ampia. Certamente ha potuto e voluto, e le traduzioni di versi dal francese, dal latino e dal greco contenute in Canti ce lo dimostrano, accostarsi ai testi di suo interesse di prima mano.
Altre poesie (Al mio libricino di preghiere e Alla mia Lira) rinviano ad altre dimensioni della sua formazione: alle sue pratiche religiose e alla sua educazione musicale. Ma l’espansione più inconsueta delle sue curiosità intellettuali - rispetto anche alle giovani più coltivate del suo tempo - è quella verso le scienze della natura e la botanica. In Aspetti di alcuni siti di Terra di Otranto si esprime attraverso una descrizione del paesaggio naturale gallipolino non convenzionale, espressa attraverso la precisa denominazione della fauna e della flora salentina.. I Canti di Sofia Stevens si prestano a ben altre riflessioni. L’augurio è che questo libro sia più conosciuto e, perché no, letto.