Coppola rossa, bandiere a tre colori, 'nnocche e 'nzagarelle. Quando in Terra d'Otranto si piantavano gli alberi della libertà. Questo è il titolo del volume di Gerardo Fedele, che vanta la presentazione del Sen. Giorgio De Giuseppe. La pubblicazione è a cura dell'Amministrazione Comunale di Tuglie con il patrocinio della Società di Storia Patria per la Puglia, sezione di Otranto - Maglie e Tuglie. Il saggio, che già dalle prime battute appare interessante, riguarda il coinvolgimento di tanti amministratori dei numerosi Comuni del Salento, tra cui Tuglie e Gallipoli, durante il periodo della Repubblica Partenopea.
Dopo la presa della Bastiglia del 14 Luglio 1789 i rivoluzionari francesi piantarono a Parigi il primo albero come simbolo di libertà. Essi lanciarono involontariamente un modello che fu seguito da tantissime altre popolazioni straniere, comprese quelle dell'Italia centro-settentrionale e della Terra d'Otranto, nel Regno di Napoli.
L'albero della libertà, a seconda dei luoghi, si identificava in un pino, un alloro, un olmo, un gelso e persino in un arancio, ma per i rivoluzionari il più indicato era il pioppo, la pianta del popolo. Nella Scienza Botanica, infatti, il pioppo viene chiamato “populus” che per l'appunto significa “popolo”.
Piantato generalmente nelle principali piazze di paesi e città, l'albero della libertà, veniva decorato in cima col berretto frigio (coppola rossa) e con le bandiere tricolori dei giacobini, ma anche con coccarde e nastri colorati ('nnocche e 'nzagarelle). Sotto le sue fronde venivano officiate cerimonie di giuramento nei confronti delle nuove autorità. Inoltre, si promulgavano decreti, si accendevano falò e, cantando e ballando, si dava vita a clamorosi festeggiamenti rivoluzionari.
Tuttavia in alcuni paesi del Regno di Re Ferdinando, soprattutto in Terra d'Otranto, nonostante l'innalzamento degli alberi, si continuava a riconoscere il legittimo magistrato del Regio Governatore. Quelle piante, infatti, pur essendo il simbolo dell'avversione al Regio potere, non sempre venivano piantate spontaneamente e, in molti casi, comparvero solo dopo l'arrivo delle truppe francesi.
Anche la piazza di un paesino come Tuglie, che all'epoca dei fatti contava circa 1.300 abitanti, è stato teatro di “festeggiamenti repubblicani” avvenuti verso la seconda metà del mese di Febbraio del 1799, (così come avvennero in Gallipoli, il 18 dello stesso mese, e in altri paesi limitrofi), ma che repentinamente furono messi a tacere.
Partendo da quei fatti realmente accaduti nel suo paese natìo, durante il breve periodo della Repubblica Partenopea, l'autore denuncia, quasi provocatoriamente, il modo in cui viene trattata e descritta nei libri di storia quella parte di popolazione (la stragrande maggioranza) fedele e favorevole al Regno di Napoli. Quei napoletani non solo subirono gli oppressori francesi, ma ebbero il solo torto di “insorgere” contro quegli stranieri. Non furono chiamati patrioti, come è giusto che si dovrebbe dire in queste situazioni, ma làzzari, straccioni, plebaglia, ribelli, ma anche “brigand”, dando il via, con questo franco neologismo, ad esasperare il fenomeno del brigantaggio. Molti di loro, infatti, per evitare la forca furono costretti a darsi al “bando” diventando “banditi” e fuorilegge, la legge marziale dei giacobini francesi.
Il detto popolare “Vattuti, curnuti e cacciati te casa”, originato probabilmente da quei fatti, non è stato mai così appropriato.
A cura di Giuseppe MIGGIANO
(dalla Prefazione del libro)