Anni settanta. All’alba di una gelida giornata ottobrina guidavo la mia auto verso il Castello di Grinzane Cavour, in quel di Alba (Piemonte), per una giornata di aggiornamento scientifico sulla tecnologia del vetro per uso farmaceutico.
Fra le dolci colline del Piemonte il Castello di Grinzane Cavour è sede del Cavalierato del Tartufo ed Enoteca Nazionale: il massimo del buongusto e della tradizione enologica e culinaria. Giusto luogo per una giornata di studio a carattere scientifico, ospiti di una società leader nella produzione di vetro farmaceutico, nella zona del Barolo, re dei vini e vino dei re.
Erano con me tre colleghi, grandi esperti non solo del vetro farmaceutico ma anche della Padania gastronomica ed enologica, infatti erano originari rispettivamente di Quistello, S. Maria la Versa, Zibello. Non li conoscete? Cercateli sulla carta o chiedete ai salumai, quelli di prestigio.
Non appena superata Tortona una fila interminabile di camion cisterna dal fortissimo aroma di vino mi costringeva a lunghissimi sorpassi, le targhe erano LE – BR – TA .
Centinaia di migliaia di litri di vino da “taglio”, mieru – l’antico merum, ossia schietto per essere chiari, correvano al soccorso di anemiche uve per dar loro corpo, forza e dignità di vino.
Nominando ad alta voce le targhe che leggevo commentai: Lecce, Brindisi, Taranto: Enotria Tellus- Terra del Vino. Antico nome dell’Italia del Sud.
Spiegai che οιυότρου (oinotron) da cui deriva Enotria, terra del vino, è il nome greco del paletto che sorreggeva le viti e che quel nome inizialmente indicava la Magna grecia, poi indicò anche l’Etruria. La terra del vino era caratterizzata dalla fitta presenza di paletti per sorreggere le viti.
Proseguendo verso le langhe del Monferrato raccontai delle malattie della vite e come il Vescovo di Parigi verso la metà del 1500 aveva scomunicato i diablotinos (diavoletti) ossia gli insetti che infestavano le vigne e come fino al 1700 il Municipio di Torino comperava ogni anno a Roma, pagandola profumatamente, una Maledittione contro i parassiti delle vigne.
Ma il disastro venne dopo, verso la metà dell’ottocento, quando dall’America arrivarono in Europa prima l’oidio in Inghilterra e poi, una ventina di anni dopo in Francia, la peronospora e la fillossera.
Fu un disastro immenso. Arrivò anche in Italia, provocando la distruzione di due milioni di ettari di vigneti. Colpì per primo il Piemonte e subito dopo il resto dell’Italia.
I vignaioli francesi usavano irrorare con verderame ( carbonato basico di rame - velenoso) i filari periferici dei vigneti per dissuadere i ladri dal furto dei grappoli di uva e quei filari non erano attaccati dai nuovi parassiti.
Oggi sappiamo che lo ione rameico agisce sulle proteine plasmatiche ed enzimatiche delle cellule, quelle dei parassiti in primis, inibendo i meccanismi vitali delle stesse, con morte conseguente dei parassiti, ma anche, se in forte concentrazione, delle parti vegetative delle piante. E’ un mezzo usatissimo nella lotta contro una vasta gamma di parassiti. Il rame è poi dilavato dall’acqua e resta come oligoelemento essenziale nei terreni. Quello che passa nell’uva e poi nel mosto durante la fermentazione viene trasformato in solfuro di rame insolubile dal Saccharomyces cerevisiae ed eliminato con le fecce: i Verdi stiano tranquilli.
Partendo da queste osservazioni i chimici furono lesti a risolvere il drammatico problema e nacque la poltiglia bordolese. Si trattava, come anche io da ragazzino ho visto fare dai vignaioli, di miscelare una soluzione di solfato di rame, da solo velenoso anche per le piante, con latte di calce, in determinati rapporti di peso. Agitando energicamente con un bastone si formava una torbida che era sparsa sulle viti con le famose pompe a spalla ed un fazzoletto sulla bocca, cercando di lavorare sopravento per non restare intossicati
Era certamente una preparazione artigianale; senza una guida stechiometrica certa non tutte le preparazioni avevano l’efficacia sperata. In questa poltiglia la concentrazione attiva del rame, ossia quella dello ione presente in soluzione e biodisponibile, in funzione della costante di solubilità del sale misto, doveva essere quella giusta: nociva per i parassiti e non per le piante.
Oggi le poltiglie in commercio rispondono a precise composizioni brevettate e garantiscono le migliore efficacia. Si tratta di Sali misti di idrosolfati di calcio e rame in cui lo ione rameico in acqua raggiunge la concentrazione ottimale per eliminare i parassiti, lasciando indenni le parti vegetative delle piante.
La risoluzione del problema fu completata dall’innesto della vite mediterranea su radici di viti americane, ovviamente indenni da questi parassiti provenienti dall’America. La parte radicale della vite non raggiungibile dalla poltiglia era indenne per selezione naturale, mentre le parti aeree venivano difese dalla poltiglia bordolese.
A raccontarla oggi la storia è facile, non allora!! Si compì da parte dei chimici una delle campagne più importanti di tutta la storia di lotta ai parassiti dell’ agricoltura, che aveva provocato disastri economici enormi, centinaia di proprietari e decine di migliaia di vignaioli ridotti alla disperazione, suicidi, fallimenti a catena, emigrazione.
Una digressione: In altri casi precedenti i parassiti, la malattia delle patate in Irlanda ad esempio, portarono a rischio di estinzione per fame la popolazione di intere regioni e costrinsero i sopravvissuti a bibliche migrazioni.
Oggi l’uso degli antiparassitari per l’abuso che se ne è fatto è considerato solo nocivo. Si va diffondendo la coltura biologica. Se apro un frutto e trovo un verme è biologico o nocivo? Se mangio del pane di segale indenne da segale cornuta, dovuto ad un uso mirato ed intelligente dell’antiparassitario di turno, faccio male?
Devo correre il rischio di ingerire col pane derivati dell’Ergot ( il frutto della segale cornuta ) con conseguenti convulsioni e mal di santantonio? ( intossicazioni epatiche anche mortali). Un antiparassitario va usato in modo che al momento del consumo alimentare i suoi residui siano stati eliminati. Questo è l’uso intelligente che va garantito.
Ancora nel settecento in Valtellina si bruciavano le streghe e forse di trattava di contadine affette da intossicazioni da ergot.
La possibilità di coltivare “biologico”, senza un attacco a fondo di parassiti con distruzione totale del raccolto, non è forse per il fatto che sono stati sconfitti dagli antiparassitari?
Questi ultimi non si continuano forse ad usare tutt’intorno ai campi coltivati a “biologico”? proteggendo così tali colture?
Un conto è l’uso intelligente – e dobbiamo essere in grado di garantirlo - un altro la presunzione dettata dall’ignoranza di cosa ha passato l’umanità in passato.
Ma oggi corriamo il rischio di bere latte di importazione alla melanina!!
Una delle conseguenze della fillossera e della peronospora fu l’invasione del Sud dell’Italia, quando non era ancora invasa dei parassiti, per piantare vigneti a più non posso per salvare il mercato vinicolo allora in mano ai francesi principalmente ed ai piemontesi.
Gallipoli, porto di esportazione del vino secondo solo a Napoli per movimento globale ma primo nel Regno per movimento commerciale di vino ebbe un grande momento. In tutto il Salento e nella Puglia furono espiantati gli uliveti, inutili ormai visto che l’olio che si era capaci a farlo: quello fabbricato era solo di tipo lampante ( buono per le lampade), e piantate viti.
Famiglie di commercianti di vino dal Nord, Piemonte e Liguria in particolare, aprirono stabilimenti vinicoli ed il Sud conobbe una stagione tanto intensa quanto caduca al tempo stesso. I loro nomi sono scritti nelle imponenti tombe di famiglia presenti in quello scrigno storico che è il Cimitero.
Si trattava di fare vino da taglio, rude ma di alta gradazione, prodotto in grandi quantità senza badare alla qualità, non direttamente commerciabile in quanto non gradito ai palati del Nord come vino da tavola: un pugno al fegato ed una botta in testa.
Ma tanta produzione faceva paura ai detentori del mercato del vino, i francesi. Iniziò una guerra feroce, con risvolti politici: la guerra dei dazi.
In sostanza i prodotti dell’industria cotoniera e meccanica, che venivano importati dalla Francia, erano tassati per favorire le nascenti industrie del Nord d’Italia.
La Francia, una volta salvate le proprie viti ed occupata l’Algeria e la Tunisia grandi produttrici anch’esse di vino da taglio, rispose rifiutando il vino da taglio italiano.
Fu il disastro per i produttori del Sud. Ancora una volta il Sud pagava una cambiale durissima all’unità della patria asservita solo agli interessi industriali del Nord.
I politici come al solito agivano nei confronti del Sud esattamente come nei confronti di una colonia. Non solo gli ulivi erano stati espiantati, del resto i nostri “nachiri” erano incapaci di produrre olio d’oliva commestibile, ma anche la coltivazione della vite diventava una produzione povera ed esposta alle speculazioni politiche, tutte a favore del Nord del paese.
Come per l’olio si ripetè la storia: l’arretratezza tecnologica e l’incapacità da parte dei vinaioli del sud di produrre e vendere direttamente vini di qualità, salvo rare eccezioni dovute a stranieri, come gli inglesi a Marsala.
Quindi ancora disastri economici, centinaia di coltivatori alla disperazione, fallimenti, emigrazione disperata. Le stesse cose cui assistiamo oggi nel terzo mondo produttore di petrolio ma non dei suoi derivati: milioni di disperati vengono sbarcati sulle nostre coste.
Politica protezionistica a favore delle Industrie del Nord – comunque condannate sempre alla sudditanza delle industrie d’oltralpe per mancanza di materie prime e croniche carenze tecnologiche - a scapito delle colture del Sud che invece necessitavano di una politica liberistica.
Estate 1975, la storia non cambia: a Sểte, principale porto vinicolo francese vicino a Bordeaux, i vignerons bordolesi con una sommossa imponente distruggono centinaia di migliaia di ettolitri di vino italiano. Altre centinaia di migliaia di ettolitri ancora sulle navi tornano indietro. Una dura lezione.
Nel porto di Gallipoli una nave vinaria a giugno caricò diecimila tonnellate di vino, che in agosto scaricò per la distillazione: ho le foto del carico e dello scarico. L’alcool fini col diventare cognac o brandy o grappa. Le borlande ? a rendere viola i fondali marini….
Nel Salento in quegli anni era molto più facile trovare vino che acqua. A Gallipoli l’acqua dai rubinetti stillava per pochissime ore al giorno. In compenso le dighe del Pertosillo e del Fortore scaricavano a mare centinaia di milioni di metri cubi di acqua ….a Taranto ben sei altiforni producevano milioni di tonnellate di acciaio e laminatoi a freddo, primi al mondo per tecnologia avanzata, li trasformavano in tubi di acciaio: ma non si trovavano i tubi sia per raccordare la canna dell’acquedotto della diga del Pertosillo ( tre metri di diametro) ferma a Grottaglie per collegarla con l’Acquedotto Pugliese, anche per sanare quest’ultimo ormai vecchio colabrodo, che disperde nel sottosuolo molta più acqua di quella che porta a destinazione, non era avanzata tecnologia…..
Alla Cooperativa di Melissano l’Aleatico, il Gran Riserva, il Moscato d’Amburgo, vini di grandissimo lignaggio, degni di imperatori, si acquistavano a prezzi bassissimi ed alla Cooperativa di Galatone la lacrima di 13,5 - 14 gradi costava solo trecento lire al litro, damigianette a parte. C’era da piangere per loro, ma per i bevitori: erat bibendum et pede libero pulsanda tellus.
Prima del mio ritorno a Milano caricai in auto 6 taniche da 30 litri di cotanti vini che offrii ai colleghi ( quelli di Quistello, Zibello e S. Maria la Versa ) etichettate apposta da me con la scritta in greco antico e in italiano dall’Odissea:
“Bevi ed impara qual vino carreggiava il nostro legno!
Vino produce la feconda terra ai Ciclopi
Ma questo è ambrosia, è nettare celeste!”
Dovetti subito ordinare per loro, e molti altri aggregati per l’occasion, 50 damigianette da 5 litri di lacrima di Galatone.
Per un disguido ( voluto?) quel vinaio della malora mi inviò 50 damigiane da 55 litri!. Così mi arrivò un camion con 2750 litri di vino da scaricare in casa, nel cortile del mio condominio!!
Vi lascio immaginare la situazione: ma niente panico per me.
L’avesse detto prima avrei fatto scaricare direttamente nel Magazzino della Ditta dove lavoravo, dove, in un angolo appartato avevamo installato una macchina imbottigliatrice ad hoc per i travasi secondo le Buone Norme di Fabbricazione – pardon di vinificazione.
Con un giro di telefonate ai colleghi al grido di nunc est bibendum ( cui si rispondeva bibe, cane, pulsa pede- bevi canta e balla) lo piazzai tutto: entro sera era tutto piazzato!
Il custode, un abbruzzese che era stato svezzato a Montepulciano d’Abruzzo, era costernato in quanto per lui non ne era rimasto ed anch’io rischiai di restare all’urmu. I miei colleghi capirono subito perché quel vino si chiamava lacrima: c’era da piangere quando sarebbe finito!
Non bisogna infatti dimenticare che il Salento da sempre ha prodotto mosti per vini di eccellenza.
I Veneziani, quando dovettero lasciare in mano al Turco Cipro, l’isola di Venere, dove per la prima volta nella storia l’uomo sembra abbia prodotto il vino e dove nacque la madre di tutte le viti del mondo, l’uva rosa dallo splendido profumo, i Veneziani dico si preoccuparono di recuperare li ceponi de l’uga, che il Turco bruciava.
Lasciarono che spellassero vivo il povero Marcantonio Bragadin, ma li ceponi no. Li trapiantarono a Candia ( Creta) in una località chiamata Mohambasia, dove si acclimatarono molto bene. Dopo perduta anche Candia li piantarono nel Salento dove si acclimatarono in modo eccelso e nacque la Malvasia, regina delle uve e madre nobile dei più nobili vini.
Negli anni ottanta ci fu poi quel vergognoso episodio del vino al metanolo che non sfiorò minimamente la Puglia, ed anche in seguito un ennesimo tentativo di fare il vino senza l’uva si va consumando nel ridicolo di quattro imbecilli.
Neanche in questa occasione la Puglia può preoccuparsi. Il vino italiano, il pugliese soprattutto, dopo la lezione chiara ed esauriente è cambiato radicalmente, come l’olio di cui dissi tempo fa.
Ora vini italiani e pugliesi di gran lignaggio e di grandissima qualità, per nulla scalfita dai tentativi suddetti, sono venduti nel mondo ed abbiamo superato la Francia come quantità e come qualità di vini negli USA e nel mondo.
Negli ipermercati milanesi trovo sempre più spesso vini pugliesi, anche se non con frequenza proporzionata alla sua produzione. Enotria tellus!!: vini come Donna Marzia e Donna Peppa,
( precedenza alle signore ) Aglianico, Aleatico, Rosati della zona di Alezio - Matino – Parabita - Gallipoli, Melissano Gran Riserva, Primitivo, Five roses, Lacrima di Galatone ecc.ecc.ecc.… sono perle preziose.
Il Kalòs di malvasia nera brindisina e il Vino di Uva di Troia ( quella in provincia di Foggia non quella di Omero). I bianchi e i rosati superbi del Conte Zecca e del Barone De Castris, le Cinque Rose ( o Five Rouses che allietarono le libagioni dei liberatori USA).
I generosi rossi di Neviano, Campi, Manduria, Sava, Copertino……A proposito penso al fraticello S. Giuseppe da Copertino, alle sue mistiche levitazioni nella preghiera. Anche un comune laico può levitarsi così, con un bel quartino di quel vino, magari per appoggiare più di un paio di involtini di interiora di agnello ( mboti).
Ne sa qualcosa il mitico Titoru (il Bacco locale), che ormai non trovando più polpette di asino è costretto agli mboti ne mangiò tanti e poi tanti che….
Una generosa frittura di trigliette o di cupiddri o masculari può trovare sublime ristoro con una buon bicchiere di Lacrima di Galatone.
Ed abbiamo nominato solo una minima parte di vini di una piccola parte della Puglia…..
L’uva è il frutto della foto-sintesi clorofilliana. L’energia sotto forma di luce ( fotòs – in greco) la dà il sole generosissimo di Puglia, la sintesi la fanno i vinai pugliesi, maestri da diecimila anni nell’arte del vino: il vino pugliese è l’energia del sole, che dà la vita, racchiusa in una bottiglia dal lavoro intelligente dell’uomo. Il vino è cultura, gusto della vita, socializzazione, insomma civiltà.
Alme sol ( sole che dai la vita ) cantava Orazio, poeta anche del vino, nel suo Carme Secolare a Roma. Sapeva benissimo che la terra pugliese dà gran vino, per quello s’era ritirato a Venosa, Canosa era troppo arida, nel suo campicello che gli dava un vino che col Cecubo e col Falerno la vinceva di netto. Immagino quando lo beveva con pochi eletti amici recitando i versi di Alceo, Anacreonte e Omero e perché no, anche di Ennio, quello di Rudiae.
Non lo poteva neanche lasciare invecchiare troppo negli otri di terracotta dell’epoca, in quanto diventava di altissima gradazione tanto da prendere fuoco spontaneamente. Doveva raggiungere 50 gradi almeno. Non ritengo che Orazio dica bugie. Io spiego il fenomeno con il fatto che la terracotta dell’epoca non era cotta alle temperature elevate come fu poi nei secoli successivi e, per un fenomeno di ultrafiltrazione attraverso la forma cristallina dell’argilla secca ma ancora non compattata dalla cottura ad alta temperatura, il vino perdeva l’acqua e non l’alcool. Diminuiva infatti di volume e si elevava la gradazione.
Cosa ne pensano i miei colleghi chimici? Non è forse la tecnica che oggi si usa con altri materiali con il nome di ultrafiltrazione? Forse la questione può essere risolta da qualche maestro figulo di Cutrofiano, loro sono maestri indiscussi della creta: si riesce a riprodurre le condizioni di temperatura dell’epoca nel preparare gli otri d’argilla?
Al Vinitaly di Verona ed al TuttoFood di Milano la Regione Puglia con il vino e con l’olio fa sempre fuochi d’artificio. Olio, Vino, Pane e favolosi formaggi.
Charles de Gaulle disse che era ingovernabile un paese che produce ottomila formaggi (la Francia). Non aveva capito niente. Ben altro sarebbe stato il suo pensiero se avesse assaggiato quelli di Puglia: marzotiche, burrate, caciocavalli e “bocconcini di minuscole mozzarelle” fatti con latte freschissimo secondo l’antica ricetta della Marchesa di Culopazzo ( Blanca de La Cueva)!!
Da mangiare accompagnati con un “Copertino” o un “Matino rosè” o con un “Manduria” d’annata insieme con fave fresche, di alto significato nutrizionale in quanto ricchissime, come tutti i semi germoglianti, dei principi attivi della vita vegetativa e spirituale.
Avrebbe senz’altro sentenziato come quell’oste di Pompei: Aeternum vivet Apuliae qui vescitur caseis, (vivrà in eterno chi mangerà formaggi pugliesi). Peccato che l’autore morì nella catastrofe di Pompei.
Io auguro come prossimo obiettivo del vino italiano il mercato Cinese: se cominciano a bere quelli ci lasciano tutti all’urmu! La Puglia ed il Salento in particolare non mancherà ai brindisi, anzi ai cambè cambè! (il loro salute!) Salute!!
Nino SANSO’