Soli in Africa, io e la mia Vespa

V puntata: Senegal Gambia Guinea Bissau

Viaggiare deve comportare  il sacrificio di un programma a favore del caso, la rinuncia del quotidiano per lo straordinario; deve essere strutturazione assolutamente personale delle nostre convinzioni.  H. Hesse

L’Hôtel du Marché è molto affollato, soprattutto la sera. Una decina di camere dell’ala destra sono riservate alle prostitute che  attendono i clienti, chiacchierando allegramente nella hall. Seduto sul balcone del cortile osservo in modo discreto il continuo e frenetico  viavai di clienti e prostitute ed intanto faccio il punto della situazione. E’ il 27 marzo, sono trascorsi 24 giorni da quando sono partito e tutto è  filato liscio come l’olio, a parte la brutta caduta a Souk- el-Arba-du- Rarb. Mi fermerò a  Dakar solo iltempo per  richiedere i visti per la Guinea Bissau e  per la Guinea Conakry.
All’imbrunire esco per andare a comprarmi delle sigarette ,dei biscotti e del latte in polvere per la colazione del mattino. Al ritorno in albergo ho una gradita sorpresa: Sebastien, il ragazzo spagnolo che  avevo incontrato  nel Sahara occidentale è giunto anche lui a Dakar perché avrebbe intenzione di andare  nel Burkina. Prima di salutarci a Nouakchott, gli avevo dato l’indirizzo dell’hotel in cui probabilmente sarei andato a risiedere durante il mio soggiorno nella capitale senegalese. Sono contento di rivederlo anche perché  posso parlare con qualcuno,visto che sono sempre solo, in compagnia dei miei pensieri .A sera, io e Sebastien usciamo per andare a mettere qualcosa sotto i denti. E’ l’ora più favorevole per  il mestiere più antico del mondo e noi siamo costretti a farci strada  tra le ragazze  che,truccate e agghindate in modo eccessivamente vistoso,  attendono i clienti e quelle che varcano la porta dell’hotel seguite dalla loro preda già catturata per strada. Mi sento chiamare per  nome,  mi volto;  una ragazza mi saluta con un lungo sorriso che ha il sapore di un esplicito invito a concludere l’affare. Rispondo con un altrettanto gentile “Bonsoir, Mademoiselle !” e tiro dritto, immaginando che abbia chiesto informazioni su di me  al portiere, incuriosita soprattutto dal fatto  che viaggio in vespa.
Dopo la prima colazione fatta  a Saint-Louis prima della partenza e qualche biscotto nel pomeriggio, non ho mangiato  null’altro durante l’intera giornata e il mio stomaco reclama il dovuto. Sfoglio la mia guida e fra i tanti ristoranti scelgo  l’Ali Baba , un fast food libanese a due passi da Place de l’Indépendance  in avenue G. Pompidou.Pollo arrosto e patatine fritte e da bere solo un coca: nel locale non servono alcolici;   rimando al giorno dopo il piacere di sorseggiare una buona Gazelle.
L’indomani,di buon’ora  io e Sebastien ci rechiamo all’ambasciata della Guinea Bissau per il visto d’ingresso. L’ambasciata si trova in Point E,rue 6: è un po’ lontano dall’hotel, ma non è un problema. Quando arriviamo, nell’ufficio visti c’è un bel po’ di gente che aspetta. L’impiegato addetto  alle richieste è un tipino alto si e no un metro e cinquanta, magro e secco come uno stoccafisso; il suo sguardo esprime un misto di  acredine e di insofferenza; quel giorno sembra   molto nervoso e risponde in modo alquanto sgarbato alle domande che gli vengono poste. Dopo mezz’ora circa è il nostro turno. Consegniamo il passaporto e chiediamo quanto tempo occorra per ottenere il visto. Il segretario non risponde , io e Sebastien ci guardiamo in faccia, mentre qualcuno ridacchia quasi compiaciuto. Riempiamo dei formulari, poi chiedo al segretario quanto costa il visto. Finalmente alza la testa e il suo sguardo ci fa capire che non siamo graditi. Ci dice che  per entrare in Guinea occorrono 50 euro.Ho l’imprudenza di affermare ( più  per stemperare l’atmosfera alquanto tesa con un battuta scherzosa che per altro) che visitare il suo paese costa molto caro. Non l’avessi mai detto! L’omino salta sulla sedia, mi lancia i passaporti in faccia, urlando che non ci concederà il visto d’ingresso. Sono spaventato dalla sua reazione, ma mantengo la calma. La posta in gioco è alta: senza quel visto  sarei costretto a passare direttamente nel Mali per arrivare a Bamako. percorrendo centinaia di chilometri di piste sabbiose; inoltre mi precluderei la possibilità di vedere la Guinea Bissau e la Guinea Conakry.
Osservo per un attimo Sebastien: ha gli occhi fuori dalle orbite, il respiro affannoso, sembra una pentola a pressione in procinto di esplodere. Lo prendo per il braccio e lo prego di andare a sedersi.  Tutti quelli che sono lì e che hanno assistito alla scena  aspettano curiosi la mia reazione; la tensione che è venuta a crearsi potrebbe danneggiare, in qualche modo, anche la loro posizione Raccolgo i passaporti da terra e li porgo al segretario. Gli consiglio  di calmarsi; la mia è stata solo una boutade detta senza l’intenzione di offendere niente e nessuno. Non mi guarda, fa finta di mettere  in ordine il contenuto di alcune cartelle che giacciono sulla scrivania. Allora gli chiedo se davvero crede di avere  il potere  e vuole assumersi la responsabilità di negare il visto d’ingresso ad un Italiano, cioè ad un cittadino di un paese molto amico della Guinea e che per giunta ha percorso migliaia di chilometri per arrivare sino a Dakar. Se è deciso ad agire in tale maniera  mi vedrò obbligato a parlare direttamente con l’ambasciatore. Lascio i passaporti assieme a 50 euro sulla scrivania e  vado ad accomodarmi sulla sedia, accanto a Sebastien.
In Africa, le ambasciate offrono ad uno straniero quasi sempre una piccola anteprima   dei problemi che gli si pareranno contro al momento di visitare il paese del quale egli chiede il visto. Comunque, va detto, che  le noie e le seccature burocratiche da me sopportate in Africa sono solo dei leggeri pruriti in confronto alle difficoltà con le quali hanno a che fare i migranti che giungono in Italia, siano essi regolari o clandestini. Eccezion fatta per la R.D.C., dove  i guai per me sono stati davvero grossi,  ma questa è un’altra storia che racconterò successivamente. Dalla mia postazione ho modo di scrutare  in viso dell’omino,di studiarne qualsiasi cambio d’ espressione, anche il più impercettibile. Ed eccolo alzare la testa e rivolgermi uno sguardo; gli accenno un sorriso conciliante. E’ fatta! Siamo usciti dall’impasse. Con un viso completamente disteso si scusa per la sua irruenza; dice che la sua giornata è cominciata male e che ha dovuto risolvere in fretta e in furia due grossi problemi. Mi scuso a mia volta, aggiungendo di avere una gran  voglia di visitare la Guinea. Mi chiede gli altri 50 euro per il secondo visto, ma Sebastien afferma a sorpresa di non esserne più interessato. L’omino mi tende la mano e mi dice di ripassare il giorno dopo per ritirare il passaporto e il visto. La gente che è lì, in  attesa  sorride; tutti sembrano soddisfatti dell’epilogo che ha avuto la mia storia; l’ allentarsi della tensione favorirà evidentemente il buon esito delle loro richieste.
Quando usciamo dall’ambasciata, Sebastien mi dice che non ha alcuna voglia di andare in Guinea e che si recherà direttamente nel Mali. Non aggiungo nulla per fargli cambiare idea: abbiamo motivazioni al viaggio differenti; inoltre, il suo tempo a disposizione è alquanto ridotto: a fine aprile deve essere in Spagna per sostenere un esame all’università.
Da dove siamo, l’ambasciata della Guinea Conakry non è molto distante. Propongo a Sebastien di andarci per vedere dove si trova esattamente, per non perdere tempo il giorno dopo, una volta ritirato i passaporto all’ambasciata della G. Bissau.In un batter d’occhio giungiamo in zona, ma non riusciamo a trovare subito la sede dell’ambasciata.
Sul marciapiede che stiamo percorrendo ed accanto ad un grande cancello in ferro battuto ci sono due signori seduti su degli sgabelli. Il più anziano veste un abito tradizionale molto elegante che gli conferisce qualcosa di ieratico. Ed è proprio a lui che mi rivolgo per chiedergli di indicarmi l’ambasciata. Alla mia richiesta non ricevo però nessuna risposta. Il signore volge la testa dall’altra parte, pronunciando alcune parole in arabo che io non capisco.Con sguardo interrogativo fisso l’altra persona che è più giovane. Questi mi dice che il suo padrone non vuole darci l’informazione richiesta in quanto non l’abbiamo salutato quando poco prima gli siamo passati davanti. Riconosco la scorrettezza,tendo la mano e  chiedo perdono per il mancato saluto adducendo come scusa il fatto che eramo totalmente assorti nella ricerca dell’ambasciata.Siamo scusati e riceviamo quindi l’informazione. Comunque, la piccola storia appena vissuta mi servirà da lezione per rammentarmi anche in futuro che, in Africa più che da noi, il saluto è una dimostrazione, non solo di buona educazione, ma soprattutto della considerazione che si ha della persona incontrata, la si conosca o no. Inoltre, un saluto presentato con eleganza e misurata deferenza, rende le cose più facili quando si entra in un ufficio o una centrale di polizia.Nell’ambasciata della Guinea Conakry, la segretaria molto gentile e che io ho salutato forse con troppa affettazione ( mi ripropongo la prossima volta  di essere meno teatrale)mi dice che il visto viene rilasciato in giornata al costo di 40 euro.
Il 28 marzo, alle 9 ritiro il passaporto all’ambasciata della G.Bissau e, nel pomeriggio ho anche il visto  per la G. Conakry. Il 29, di buon mattino, saluto Sebastien ed esco dall’hotel con la mia vespa ,direzione sud, verso Mbour. Lasciare Dakar non è difficile: ottime strade,buona la segnaletica.Conto di arrivare a Barra, in Gambia nel tardo pomeriggio,300 km circa; lì, conto di fare una sosta per trascorrere la notte. Conosco già il posto.Sulla riva sinistra del Gambia, c’è un fortino dove nell’ottocento venivano rinchiusi gli schiavi in partenza per il nuovo mondo.Chiederò al custode il permesso di montare la mia tenda sotto il grande baobab che s’innalza maestoso propria lì vicino.Credo che egli si ricorderà di me, avendogli chiesto la stessa cosa tre anni prima.Mi fido di lui e mi metterò tranquillamente sotto la sua protezione ,regalandogli qualche euro.
Cinque ore per percorrere i 189 km  che intercorrono tra Dakar e Kaolack.Il paesaggio non è molto interessante. La vegetazione è scarsa e di tipo arbustivo.Solo il grande                                                                  
baobab attira la mia attenzione : sono affascinato dalla sua maestosità.Quando ho bisogno di fare una sosta, è proprio davanti ad un baobab che parcheggio la vespa.
Attraverso Kaolack,città caotica , come quasi tutte le città africane, piccole o grandi.Passo davanti ad una centrale de la Gendarmerie , un poliziotto con una cartella sottobraccio sta varcando il cancello che  dà sul marciapiede. Appena mi scorge mi intima di fermarmi. Penso che voglia spillarmi del denaro ed esprimo a me stesso l’auspicio di liquidare rapidamente la faccenda; non  ho molto tempo da perdere e soprattutto non ho intenzione di sborsare nemmeno un franco.Presento subito i miei documenti; sorridendo mi dice che mi ha fermato non per controllarmi ma per ammirare la mia vespa; anche  lui ne possiede una, un vecchio modello degli anni ’70.
Da come ne parla capisco   che ne è innamorato, come  succede a tutti coloro che posseggono una vespa. Vorrei trattenermi ancora e prolungare ulteriormente la piacevole conversazione, ma la strada da percorrere è ancora molto lunga; per giunta, l’asfalto da Karang,posto di frontiera tra Senegal e  Gambia, a Barra dove, come ho previsto, mi fermerò per trascorrere la notte, è  pieno di profondissime buche: farmi sorprendere dal buio sarebbe molto rischioso (è quello che ,alla fine, mi accadrà).
Lascio rapidamente  Kaolack; attraverso un lungo ponte  e la strada diventa cattiva.Ad un certo punto, trovo una strana  interruzione  che mi obbliga a prendere una deviazione sulla destra che mi porta a percorrere per qualche chilometro un stradina parallela e soprelevata di due metri circa, rispetto alla strada principale che stavo percorrendo prima e che ora vedo giù, sulla mia sinistra.In tutto questo sento che c’è qualcosa di strano. Su uno sterrato molto difficile percorro 3 chilometri e, subito dopo un curva, da dietro gli alberi saltano fuori dei ragazzi , i quali con una corda e dei rami improvvisano una barriera.In quel momento mi spiego l’interruzione sulla strada principale. I ragazzi si avvicinano e mi chiedono il pagamento di un pedaggio per poter passare.
Incomincio ad inveire contro di loro e a bestemmiare; sono fuori di me, sto perdendo del tempo prezioso. Faccio il gesto di scendere dalla vespa; i ragazzi si spaventano e scappano via, forse gli sembro fuori di testa. Torno indietro e riprendo la strada principale, discendendo per una piccola scarpata ,con il cuore in gola: potrei facilmente cadere.Per strada  riesco infine a ritrovare la calma. Penso che mi è andata bene; dopotutto erano solo dei ragazzi che volevano guadagnarsi qualche franco. In Africa, i coupeurs de route sono molto attivi e molto pericolosi. Nel Mali, nel Burkina, in Nigeria e soprattutto nel Cameroun gli assalti di questi banditi si risolvono spesso con l’uccisione dei viaggiatori che vengono depredati di tutto quello che hanno. Immediatamente dopo il villaggio di Toubakouta,la strada diventa cattiva e mi obbliga a procedere con lentezza.
Arrivo a Karang, alla frontiera  con il Gambia nel tardo pomeriggio. Per entrare nel paese non occorre avere il visto; dalla polizia di frontiera faccio apporre un  timbro sul passaporto, e compilare il carnet de passage en douane, poi vado a cambiare degli euro in Dalasi, la valuta locale. Incomincia ad imbrunire, devo affrettarmi ad arrivare a Barra, prima che mi sorprenda il buio. Ma come prevedevo, l’asfalto è disastrato; dal 2003, l’anno in cui  con grande difficoltà ho percorso in Land Rover questa strada, non è stata fatta alcuna manutenzione. Sono costretto a rallentare e a zigzagare tra le buche; alcune di esse sono dei veri e  propri crateri. Procedo passando continuamente dalla prima in seconda e viceversa. Osservo con molta attenzione la strada  davanti a me per poter scegliere in anticipo la buca nella quale infilarmi. Intanto, il buio cala inesorabilmente, mentre in me cresce la paura di cadere. Per ben due volte evito il disastro, poi la stanchezza si fa sentire. Attenzione indebolita e cattiva visibilità  fanno il resto: entro in una buca molto profonda e dai margini alquanto ripidi; accelero ma sono in seconda, la vespa non ha la necessaria potenza per saltare fuori; slitta  verso dietro,s’inclina sulla sinistra ed io non riesco a sostenerne il peso. Cado ma, questa volta evito che la mia gamba resti imprigionata sotto la vespa. Mi alzo, cerco di sollevare lo scooter ma  non ho la forza necessaria: sono troppo stanco. Arrivano due ragazzi in motocicletta, si fermano e mi chiedono se mi sia fatto male, poi mettono sul cavalletto la vespa. Mi scuoto la polvere da dosso e mi rimetto in marcia. Oramai è buio pesto e mancano circa 10 km per Barra; il bagaglio sul portapacchi anteriore impedisce al faro di illuminare la strada: non posso più proseguire. Ho viaggiato per l’intera giornata sotto il sole, ho mangiato solo un po’ di frutta, ho percorso per lunghe ore una strada pessima: sono sfinito nel corpo e nel morale. Mi fermo, sulla mia sinistra, ad una ventina di metri dalla strada ci sono delle case;  non so che fare; dò  due ,tre colpi  di acceleratore con la speranza che qualcuno mi senta. Ed ecco sbucare proprio da una di quelle abitazioni un gruppo di ragazzi. Mi vengono incontro sorridendo; sui loro volti leggo tutta la meraviglia nel vedere uno straniero, un  bianco su uno scooter. Uno di loro, il più grande, Adam mi chiede in inglese il nome e la nazionalità, poi mi dice  che vorrebbe avere l’onore di ospitarmi in casa sua. Confesso che  quelle parole dette in quella situazione, ancora oggi, suscitano in me una forte emozione. Accetto senza pensarci due volte l’invito fattomi e, accompagnato dal corteo dei ragazzi mi dirigo verso la loro casa. I genitori di Adam mi danno il benvenuto; da loro posso stare tutto il tempo che desidero. Sono stupefatto dal calore dell’accoglienza ed una sensazione di benessere mi pervade tutt’intero.Sono bombardato di domande alle quali cerco di rispondere come posso; tutta quella attenzione nei miei riguardi mi diverte, anche  se  sono molto stanco.Quello che mi colpisce di più nella gente che mi sta di fronte è la naturalezza, la spontaneità,il candore dei dicorsi ,dei  gesti. Per me europeo bianco,quel  senso istintivo di disponibilità immediata e senza alcuna contropartita verso lo straniero richiama alla mia mente usanze del nostro passato, appartenenti a  un mondo oramai lontano nel tempo ed irrimediabilmente perduto.
Scarico la vespa delle mie cose che sistemo nella stanza a me assegnata; la migliore. Poi, vado a fare una doccia per liberarmi della polvere che ho respirato con tutto il corpo sulla strada.L’acqua che mi verso addosso porta via con sé la polvere e, secchiata dopo secchiata, anche la tensione accumulata scivola via,sino ai miei piedi.Intanto, i miei ospiti mi hanno preparato la cena:Il benachin, riso con pollo,molto speziato ma anche molto buono. Dopo cena, mi accorgo che tutta la famiglia è riunita nel cortile; anziani, giovani,ragazzi,bambini,tutte le donne di casa sono seduti in cerchio attorno ad un braciere acceso: c’è una sedia libera: è per me. Tutti sono ansiosi di parlare con me  ed io, anche se avrei voglia di andare a dormire, sento il dovere,per sincera riconoscenza, di stare con loro. Mi siedo, una lampada a petrolio rischiara i volti dei bambini, non stanno nella pelle; scommetto dentro di me che essi stanno provando le stesse emozioni che provavamo noi ragazzini del sud, quando negli anni ’50, una troupe di cineoperatori  veniva nella mia città a proiettare in piazza documentari in bianco e nero a scopo didattico. Cominciano le domande: “da dove vieni?” “Quanti paesi hai attraversato?” “ Dove vai?” “ Perché viaggi?” Domande  e risposte a raffica. Il papà di Adam, Mr. Yayah mi chiede se sono sposato e se ho dei figli.Tiro fuori una foto della mia famiglia che passa di mano in mano; qualcuno se la fa dare per due volte.Quando non ci sono domande, il silenzio si riempie di sguardi e di sorrisi.Ma oramai è tardi, la stanchezza si fa sentire; di tanto in tanto i miei occhi si chiudono mio malgrado. Mr. Yayah se ne accorge e dice a tutti che è ora che io vada ha letto.
Sono talmente spossato che , non appena mi distendo sul letto,cado in un sonno profondo senza sogni. Il canto di un  gallo mi sveglia all’alba; mi alzo e vado nel cortile. I ragazzi sono lì; aspettavano il mio risveglio per chiedermi di poter dare una lavata alla vespa. Hanno già preparato secchio,spugna e sapone. Come faccio a dire loro di no? Dopo colazione, Adam mi chiede se conosco Alex Haley, l’autore di “Radici “.Gli rispondo di sì ed aggiungo che ho visto la miniserie televisiva tratta dal romanzo in cui si raccontano  le vicende  degli antenati della parte materna dello scrittore a partire da  Kunta Kinteh, che catturato nell’attuale Gambia nella seconda metà del XVII°,fu deportato come schiavo negli Stati Uniti. Il ragazzo mi propone da andare in vespa a Juffureh a vedere i luoghi dove  viveva Kunta Kinteh e da dove partì.Mi dice che sono solo 15 Km; guardo sulla cartina ma il villaggio non è segnalato; mi fido di quello che mi ha detto. Arriviamo a Juffereh dopo due ore e mezza di sterrato durissimo di 35 km. Mi arrabbio con me stesso per aver  creduto al ragazzo; eppure sapevo già per esperienza che, per molti Africani, 10 km  o 100  è la stessa cosa. Il sito  è un classico  villaggio africano in cui la lamiera  ha sostituito quasi del tutto la paglia sul tetto delle capanne. In cambio di un obolo, un piccolo museo  offre ai pochi visitatori la visione di alcuni cimeli riguardanti la tratta degli schiavi. Io ed Adam diamo un’occhiata alla casa di Kunta Kinteh. Alla fine  il tutto  non mi risarcisce dei  penosi 70 Km  percorsi pe r andare e tornare da Juffereh.                                                                                                                                              
Il giorno dopo,cioè il 30 aprile  sono pronto per ripartire.Tutti i  miei amici si accalcano attorno a me per salutarmi ed augurarmi buona fortuna.Adam vuole accompagnarmi sino a Barra  ed io l’accontento anche  se il suo peso rende  più difficile la guida della vespa già abbastanza carica. A  Barra  prendo il traghetto  che attraversa Il fiume Gambia e che mi porta direttamente alla capitale Banjul. Sino a Barra ho viaggiato per terre che avevo già percorso in passato; d’ora in avanti dovrò studiare attentamente  le mie cartine per scegliere l’itinerario migliore da seguire; ogni giorno, al mattino, nel momento in cui metterò in moto la vespa per ripartire, non saprò dove dormirò, né dove e quando consumerò i miei pasti.Tutto sarà dovuto al caso.In un quarto d’ora  sono già alla periferia di Banjul; mi accorgo che lo zaino sul portapacchi anteriore non è ben saldo. Mi fermo per fissarlo meglio; nel ripartire non metto il casco;decido di rimettermelo non appena uscito dalla città. In Africa, un bianco che commette un’infrazione non passa mai inosservato. Ed infatti, al primo posto di blocco della polizia, una paletta alzata ed un fischio esageratamente prolungato mi intimano di fermarmi. Presento i miei documenti senza esitare; per  una mia leggerezza ho offerto alla polizia il pretesto per farmi una multa o peggio ancora per estorcermi del denaro.Il poliziotto mi invita a seguirlo in un casolare diroccato, dall’altra parte della strada. In una stanza senza  pavimento e senza infissi, c’è un ufficiale seduto dietro un tavolino. Il poliziotto gli spiega che non portavo il casco.
L’ufficiale mi guarda attraverso un paio di occhiali specchiati; mi osserva per qualche secondo senza parlare: è chiaro che vuole mettermi in soggezione. Poi, mi dice che  in Gambia il caso è obbligatorio e che non indossandolo  ho commesso una grave infrazione al codice della strada. Faccio finta di non capire, ma ho capito tutto; sorrido come un ebete e resto in silenzio. Intanto  il poliziotto comincia a scrivere qualcosa su un formulario, poi  mi si avvicina su ordine del suo superiore e mi suggerisce che posso evitare la multa  se  sono disposto a  fare  al comandante un piccolo regalo: 100 dalasi, circa 7 euro. Continuo a far finta di non capire; sorrido e non rispondo; vado a sedermi su di un masso, vicino alla finestra. Nella stanza è un continuo viavai  di gente caduta nella rete della polizia. Tutti pagano per evitare noie e, nella mezz’ora che sono lì, l’ufficiale incassca un bel po’ di dalasi. Di tanto in tanto si rivolge a me chiedendomi cosa voglio fare, senza ottenere alcuna risposta. Per me l’unica strategia possibile per non pagare consiste di far finta di non capire ciò che mi viene detto. Mi accendo un cigaro e mi alzo per offrirne uno a ciascuno dei poliziotti.      
La qualcosa sembra essere molto gradita, allora  tiro fuori dallo zainetto due confezioni di cigari  e le offro ai militari. Dopo una decina di minuti, l’ufficiale mi chiama, mi restituisce i  documenti, dicendomi che posso andare. La mia resistenza passiva ha raggiunto i risultato sperato. Mi chiede  quale sia la mia destinazione. Quando rispondo  che sto andando in Tanzania, si toglie gli occhiali  e mi guarda con una espressione esagerata di meraviglia ed io no so  ben dire  se sia la mia meta a sbalordirlo o il fatto che abbia risposto alla sua domanda con un buon inglese.
Rimetto in mota  e parto con il casco in testa. Il Gambia è una sottile striscia di terra, larga al massim 50 km. che s’incunea dalla costa atlantica  in territorio senegalese per 400 km, lungo le due rive del fiume omonimo.
Quindi, in un’ora o poco più lascio questo paese e  rientro in Senegal. 184 km circa per arrivare al confine con la Guinea Bissau. Nel tardo pomeriggio sto già espletando la pratiche doganali: timbro sul passaporto, registrazione presso gli uffici della polizia, compilazione e vidimazione del Carnet della vespa.
Entrare in Guinea mi dà una certa emozione; il paesaggio  è cambiato, il clima  tropicale umido  favorisce una intensa vegetazione caratterizzata da mangovie sulla costa e da foresta tropicali un po’ più all’interno. E’ la prima volta che vedo una flora così verde e ricca. Lungo la strada, di tanto in tanto, immensi alberi  si elevano per decine di metri;  il loro tronco, alla  base, presenta numerose pieghettature che lo fanno somigliare  a certi lavori di cartapesta fatti dalle nostre parti.Oramai è pomeriggio avanzato.  Arrivo nel villaggio di  S. Domingos; è opportuno che mi fermi per la notte. Chiedo in francese ad un poliziotto se può indicarmi un hotel pulito ma  a buon mercato. Ha capito ma mi risponde in portoghese. Afferro l’indicazione che mi viene data e trovo immediatamente l’hotel.Il padrone, oriundo portoghese mi accoglie gentilmente;  la camera che mi assegna è  piccola ma pulita, costo 6 euro.  Gli chiedo se posso regolare il mio conto in euro ed egli mi risponde che non ci sono problemi e che anche il conto al ristorante posso pagarlo con la stessa moneta.

(Continua)

Stefano MEDVEDICH