Venerdì dell'Addolorata

Il venerdì dell’Addolorata, antecedente la domenica delle Palme, è un giorno assai singolare per Gallipoli e i suoi abitanti. Tra tante sensazioni segrete dell’anima si vive una giornata tutta gallipolina, scolpita da tempo immemorabile nel cuore e nella cultura di un popolo, vissuto tra l’incenso delle chiese e i sapori della tradizione marinara, in una discreta dignità fatta di silenzi, sacrifici immani e prodigi inenarrabili. Non è una chiassosa festa paesana e patronale da annoverarsi come fenomeno di mero folklore, ma una circostanza unica e memorabile.
Già dalle prime luci dell’alba si avverte nell’aria qualcosa di impalpabile, di nuovo, di strano. Il paese si sveglia pensoso allorché sonnacchiose vecchiette in nero si avviano lungo i vicoli del centro storico, silenziose e a capo chino. L’atmosfera d’attesa cresce nelle case e in ogni famiglia, poi si espande più stringente e corale dalla cinta muraria alla via principale, per coinvolgere persino i giovani, anch’essi credenti e fiduciosi nel domani. Intanto il sole, in una natura incantata e immobile, si fa sempre più splendente sino allo scoccar di mezzogiorno. La piazza centrale pullula di folla palesemente ansiosa e discretamente festosa, allorché scuole e uffici via via si svuotano e tutti hanno in cuore una sola meta, una sola speranza, l’incontro con un mistero che da due millenni ha ridato una nuova luce alla storia dell’uomo.     
Se non è una festa di luminarie e di mense luculliane, è viceversa la tacita esplosione della fede popolare che parte dal cuore e dai sentimenti più riposti per trasmettere valori antichi che vengono dal tempo, dalle radici, dalle tradizioni. È una festività tipicamente religiosa di commozione collettiva, che accomuna tutti indistintamente nel medesimo pathos. Trova il punto focale e più emotivo nel momento esatto in cui la Vergine Dolente, in processione dalla sua chiesa del Carmine, varca la soglia della Cattedrale per la celebrazione Eucaristica. Conclusa l’esecuzione dell’Oratorio sacro, il lungo e mesto pellegrinaggio lascia il ponte dietro al lamento di tromba, seguito da tamburo e tròzzula. Dopo il tramonto, il rientro tra le antiche mura, la canonica benedizione del mare e l’ultimo percorso per le anguste vie cittadine, mentre ovunque si prepara la cena assai austera per l’occasione.
Con le prime ombre della sera i camini fumano che già si percepiscono i primi sentori di vita familiare, tra sapori di cucina che ammaliano e stordiscono il passante mai distratto né frettoloso. I rioni del centro storico sono in apprensione, perché con serenità si attende da un momento all’altro l’epifania di un prodigio, il passaggio di una figura materna, la presenza di un ospite caro. Si cena con semplicità, ma il pasto è un rituale di vera penitenza, non importante, ma sobrio e frugale, da trascorrere insieme nel calore dei propri affetti, con devozione profonda in onore di Maria. La serata è festosa ma con rispetto e contegno, senza esagerazioni né stravaganze. Per tradizione si vive in silenzio la fede, persino a tavola, dove domina incontrastato il pesce rigorosamente povero ed economico, che le nostre valenti massaie sanno preparare con arte per delizia del palato.
È già prossima la cena, alquanto particolare, anche da Cosimo Malampu, abilmente coadiuvato dalla sua paziente e arzilla matrona, nel rione di Sant’Antonio Abate, in via Ribera. Con una regia studiata e puntuale è riunita un’allegra brigata. Il menu della casa: fagioli alla pignatta, spaghetti con acciughe, frittura di pesce annaffiato da immancabile vino sincero e generoso. Cucina povera e casereccia, ricca di sapori mediterranei da far invidia a Trimalcione. Si fa festa a tavola per rispetto della tradizione e della fede, quali che siano le ideologie. Pur in religiosa attesa, tra i convitati solitamente spensierati il tempo trascorre allietato da stravaganti conversari: frizzi e lazzi, salaci ma innocenti di uno spaccato tipicamente popolare.
Ospiti dell’Anfitrione, “ssattati comu pupi li ‘nvitati unu de coste ll’addhu a menza luna parìene suri de li tramacchiati”: Castore e Polluce, Ermete e Dioniso, Priapo e Pan servito da Satiri coppieri per la gioia del gaudente Epicuro. Assiste alla singolare scena conviviale, presente come invitato d’eccezione tra gli abituali commensali, Coraldus Petrucius, cronista discreto, brillante aedo e moderno trovatore. Pronto con carta e penna, è attento a raccogliere idee e spunti per comporre liberi versi in sapido vernacolo, destinati a immortalare in un poema, pressoché sacro, l’epica popolare pregnante di profumi nostrani.
Di fronte, nella corte omonima, sta di guardia, inflessibile e muto testimone, il santo anacoreta egiziano, protettore degli animali.
“Nu ‘ndore de luntanu se santìa ‘mpena misi pete in via Ribera - esordisce il poeta - ’ndore t’aju sfrittu cu ll’oju de ulìa”.  La scenografia: “Curte Sant’Antoni vae pe’ ndumanata, allu Malampu nc’è taula cunzata”.
Si apre il sipario: “De l’arcu de la porta spalancata n’artare me parìa paratu a festa quandu se ticìa la messa cantata”.
Il simposio attende solo l’arrivo della processione, tra le cucine fumanti e “lu rùsciu de lu mare”.
Intanto c’è spazio per qualche excursus estemporaneo frivolo e frizzante e non manca chi, nella strana comitiva, non scivoli dall’ebbrezza in gratuite banalità proprie della verve e dell’animus popolare. Si aprono varie finestre di dialogo: reminiscenze di gioventù, pettegolezzi maliziosi, contrasti d’amore, vanterie, smargiassate, qualche smodata volgarità di basso trivio, consentita nel medioevo persino al divino vate. Tutto entro i limiti del vivere civile e del buon gusto, sotto controllo di un abile direttore d’orchestra, tra colori e sapori di cucina, in una giornata assai peculiare, intimamente segnata e sentita. Solo qualche accennato proverbio di stile boccaccesco: “la femmana te vinde comu ole”, “cinca moscia cote e cinca vite rraggia”, “lu verme quandu trase intra llu casu…”, per finire in gloria col canto scherzoso e godereccio, ma goliardico: ”Mamma ci nu’ mme nzuri, jeu me la taju…”.
A questo punto giunge il momento fatidico, così prodigioso che “chiàngene puru le petre de la via”.
Passa la processione col simulacro della Madonna dolente accompagnata dalle pie donne “pete cata pete”, mentre “la tromba ‘ntunava lu lamentu”.
E tutto tace d’improvviso in casa, nel vicolo e nella corte, mentre gli invitati sono irrigiditi sulla soglia. “Nu silenziu de tomba pe’ la via scise, se mmutìu la gente pe’ rispettu”. Ora sono tutti ad implorare grazie per tanti infelici, per una vita migliore: “Te ca porti sette spate mpiettu, aiùtende cu santimu cchiù affettu”.
Protagonista della scena è la Vergine Maria: “Vanìa ‘nnanzi cu lle razze stise, ulìa cu mbrazza tutti li tribulati. Lucente comu steddha matutina, ‘nfacce nde pandìa ‘na coccia de rugiata; era ‘na lacrima caddhipulina de gente ca chiangìa pe’ lla ‘Ndulurata, Core de cupeta nnasparatu de tulore”.
È un’occasione irripetibile: sacro e profano s’incontrano senza mescolarsi né confondersi. Così per ogni gallipolino: si aspetta la Madonna “comu se spetta ‘na crìsama santa”.
L’Anfitrione ogni anno sente quell’evento come appuntamento solenne non solo con la storia e con la tradizione, ma anche con la sua anima e con i sentimenti della sua gente.  Non perde tempo come è suo costume: “Cala l’alici ‘ntra ll’oju fumante cu profuma la strata e poi se vanta”. Ne sa qualcosa il Santo Abate che lo protegge, a buona ragione. Ma anche il crocifero don Santo, compunto e penitente, e i confratelli del Carmine a lutto stretto e a digiuno rigoroso, severo!
Finisce qui la cerimonia di fede e di commozione generale nella cosiddetta via dello Spagnoletto, nell’antico rione Toledo.
Ma, passata la processione con le ultime tristi note musicali, i commensali danno sfogo alla loro strana euforia, ai loro entusiasmi sopiti, lungi dall’essere espressione di facile edonismo o di gretto materialismo.
“A casa Malampu ‘nsìgnene li rusci. Prontu, carusi! lliccàtube li musi”.
Seguono brindisi, canti, sollazzi, risate, applausi e poi “la dannosa colpa della gola”, veniale anche per quanti “l’anima col corpo morta fanno”.
Tuttavia, ciò che più conta, di una verità sono certi: “pe’ llu crai, sape Diu cci porta mpiettu”. Grande assonanza dunque col “carpe diem” oraziano o col noto ritornello mediceo rinascimentale “Chi vuol esser lieto sia, di doman non c’è certezza”.
O forse non è bene accontentarsi del poco che si possiede e goderne sobriamente partecipandolo con gli amici?
Questa è la lezione di fondo, lezione di vita: “Quandu nu’ tanimu, nu’ murimu. Cchiù scuru de manzanotte nu’ bbitimu”.
L’opera poetica si avvia al gran finale con  la sentenza che il vino è dono di natura ed è in grado di appendere le preoccupazioni sulla luna. Poi la morale, inevitabile ma necessaria: a cosa servono gli averi? con niente si può essere felici se c’è la salute e “na muzzacata”.
Questo è il concetto fondamentale di tutta la storia. Difficile? Solo che va capito profondamente al di là delle diverse culture e credenze o dei falsi pregiudizi: “lu cuncettu è comu nu scajozzu ca nu llu cazzi se nu tieni tienti”.
Si lasci ora alla penna del poeta l’ultimo ufficio che di diritto gli spetta. Le sue parole si possono pure mutuare per rappresentare una più proficua e intelligente lettura dei suoi versi così sublimi e significanti.
Dapprima la confessione: “Madonna mia nu tte curare se aggiu fattu bbusu, cu llu ‘mbiscatiju de la tratizione”.
Segue la giustifica: “Tra sacru e profanu nu nc’è ‘mbroju. Tra l’unu e l’addhu ncete nu spaccatu, se mbisca la pasta cu ll’oju e l’aju, prima pe’ prechera poi pe llu palatu”.
 Infine il coinvolgimento generale, quasi fosse il canto del singolo l’inno corale di tutto un popolo per una devozione genuina, quella che solo Gallipoli può sentire e offrire con il cuore, da secoli immutabile.
Dunque, amore per la gioia di vivere e per la tradizione, amore per la fede che è speranza ma soprattutto preghiera in onore di Maria, “Core de cupeta nnasparatu de tulore”.
Il verso più esaltante e più lirico del poema dialettale La festa de “la Ndulurata” (in casa Malampu), ispirato proprio in quell’angolo di via Ribera, prospiciente corte Sant’Antonio.
È lì che nacque il vecchio Sarasalla, novello Pasquino, censore salace e arguto fustigatore di politici con i pungoli mordaci delle sue pasquinate.

Gino SCHIROSI