Quando mi è stato proposto di presentare il recente libro di don Salvatore, già parroco della comunità della Madonna delle Grazie, qui a Sannicola, dal titolo “Don Tonino Bello Croce e Fisarmonica”, edito da Piero Manni, ho avuto, superata la sorpresa, un contraccolpo di gioia e di sgomento.
Sono stato invitato ad una prova ardua che certamente mi onora, ma alza vertiginosamente la temperatura della mia inquietudine a causa della mia insufficienza, della mia inadeguatezza a parlare, sia pure per un grappolo di minuti, di un uomo planetario della statura di don Tonino Bello. Il mio sì all’esaltante richiesta – comprendete – si aggroviglia d’emozioni, di ricordi, di commozione.
Ed ora, a passo lieve, cerco di percorrere gli agili capitoli del libro di don Salvatore, che dipingono con i colori vibranti della vera amicizia, la poliedrica figura di don Tonino in tutta la sua iridescente bellezza.
Sono parole verticali, parole d’anima, capaci di schiudere orizzonti di incantate aurore nelle nostre rabbuiate coscienze, quelle che don Salvatore rivolge al suo grande amico e maestro. Scrive l’illustre vescovo emerito mons. Luigi Bettazzi nella sua dotta prefazione: “E’ bello che si legga non solo quanto don Tonino ha scritto, ma anche quanto di lui dicono quelli che ne hanno conosciuto più da vicino la vita [...] Certo, uno di quelli che meglio hanno conosciuto mons. Bello è don Salvatore Leopizzi [...] Quanto egli dice di mons. Tonino Bello ne illustra in pieno l’umanità ed è in grado di fare emergere l’elevata spiritualità che rese mons. Bello così apprezzato durante la sua vita ed ora venerato dopo la sua morte”.
Da ogni capitolo di questo libro emerge la storia di un’amicizia luminosa come un mattino di primavera, una storia costellata di momenti e di eventi incisi per sempre con lo scalpello della parola evangelica sull’architrave dell’anima. Ogni pagina fotografa un gesto, uno sguardo, una parola, una carezza, un sussulto del grande vescovo ed amico di Alessano. Sono gesti, sguardi, parole, che mi porto dentro anch’io ormai da trentasette anni. Tanto tempo è passato da quella lontanissima domenica mattina dell’aprile 1972, quando fui folgorato per la prima volta dalla sorgente luminosa della sua parola nella casa di mia zia Mimì ad Ugento.
Il sottotitolo del libro “Normalità di un uomo straordinario”, non meno del titolo “Don Tonino Croce e fisarmonica”, racchiude in una felice sintesi di tre sole parole, tutta la complessa umanità di questo singolare figlio di Dio, divenuto oggi Servo di Dio.
Tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo, non dico quanto l’autore di questo libro, ma almeno quanto chi vi parla, sentiranno per sempre echeggiare la sua indimenticabile voce nelle desertiche lande di un tempo, come il nostro, senz’ali. Quella di don Tonino è stata la voce che – sono parole di don Salvatore – “cercava di tradurre la Parola divina ed eterna con le parole del nostro mondo e del nostro tempo”. Voce lieve come brezza aurorale che continua a gonfiare le vele della speranza, voce coraggiosa e diamantina come quella di tutti i profeti.
A pagina 15 del libro si legge: “Se mons. Romero [...] era divenuto popolo, di don Tonino si potrà dire che era vescovo divenuto uomo planetario”. Condivido pienamente tale definizione. Don Tonino era prima di tutto uomo. Certamente un poeta della parola evangelica, un cantore del creato e del suo Creatore, un pastore, un profeta di pace, ma prima di tutto un uomo illuminato dalla grazia divina, immanorato del Dio divenuto uomo per la salvezza di tutti gli uomini.
Viene voglia di pensare che su di lui lo Spirito Santo abbia soffiato con maggiore forza. A parlare di uno speciale soffio dello Spirito su don Tonino, fu il compianto vescovo Aldo Garzia, dopo aver ascoltato mons. Bello la sera del 3 gennaio 1990 nella chiesa di San Giorgio a Racale, che parlava di “pace, giustizia e salvaguardia dell’ambiente”. Don Tonino, dunque, è stato “uomo fino in fondo e cristiano fino in cima”, ed ha seminato ovunque un raggio di luce della bellezza di Cristo, esibendo con naturale fierezza, l’umile distintivo di appartenenza a Lui: una croce di legno sul petto, scheggia degli ulivi salentini che amava tanto.
Guidò senza lamento e senza tregua, fino alla sua dolorosa e luminosa fine, la chiesa diocesana di Molfetta, le comunità di Ruvo, Terlizzi, Giovinazzo, per non parlare del movimento nazionale di Pax Christi, per il quale si spese fino alle ultime briciole delle sue energie. La seconda parola è “planetario”. Planetario, infatti, è stato il pensiero di don Tonino, il quale raccomandava ai giovani di aprire i loro orizzonti sul cosmo, di agire localmente alleviando dove possibile le sofferenze dei vicini, ma pensare globalmente. Insegnava, insomma, a respirare con i polmoni del mondo.
Al terzo capitolo, “Don Tonino sui sentieri di Isaia”, si legge: “Siate orgogliosi, siate fieri perché la vostra terra, il Salento, ha generato un figlio, un sacerdote, un vescovo così straordinario come don Tonino”. A parlare è don Luigi Ciotti durante una conferenza tenuta a Sannicola nel 1995, dopo aver sostato sulla tomba dell’amico vescovo di Alessano. Si legge nello stesso capitolo: “In che senso si può essere fieri e orgogliosi?” – se lo chiede l’autore del libro e continua – “Non corriamo il rischio di cadere in un rituale celebrativo che può alimentare soltanto un certo orgoglio campanilistico a scapito dei profondi contenuti profetici del suo messaggio? Non basta moltiplicare i ricordi [...] né tanto meno si deve cadere nel pericolo di strumentalizzare, sia pure inconsapevolmente e indirettamente, le parole e le opere dell’illustre conterraneo per scopi utilitaristici di qualsiasi genere e per altri obiettivi comunque estranei o diversi rispetto alla verità originale”. Essere fieri, orgogliosi – conclude don Salvatore – va bene solo nella misura in cui sapremo essere anche fedeli e coerenti nel proseguire il cammino tracciato da mons. Bello: “Sui sentieri di Isaia, insieme, alla sequela di Cristo, sul passo degli ultimi”. Concordo pienamente su questa tua profonda riflessione, caro amico don Salvatore, sullo splendido profilo che quella sera del ’95 don Ciotti tracciò del nostro don Tonino e sulla fortuna di averlo avuto nostro vicino di casa. E’ giusto essere fieri e orgogliosi, come credenti e come salentini per aver avuto un conterraneo come don Tonino, prezioso dono del Signore. Ancora più giusto, però, sarebbe ubbidire ai suoi insegnamenti, seguire il suo esempio, prendere a piccole dosi quotidiane il farmaco della sua parola, gemma viva della Parola che salva.
Di quella Parola si è sempre nutrito, quella Parola ha irradiato a tutti quelli che incontrava, a quella Parola ha pensato, sempre, anche quando, d’estate, nei pochi momenti liberi, ritagliati da una fittissima messe di impegni, solcava a nuoto le fresche acque del mare di Leuca o di Novaglie. Anche quando accarezzava con le sue agili dita la tastiera della sua inseparabile fisarmonica, oggi muta.
Scrive don Salvatore a pagina 32 del suo libro denso di crescente ammirazione per l’amico vescovo: “Ogni comunità è chiamata a diventare – secondo l’immagine eloquente da lui stesso coniata – Chiesa del grembiule. Chiesa cioè che abbandona i segni del potere, le vesti del dominio, le poltrone della comodità, i profumi del perbenismo e si riveste del grembiule di chi è servo e si fa chiesa povera con i poveri, ultima con gli ultimi e si riveste di debolezza che è la forza inerme dell’Amore, si ammanta di porpora che è il sangue dei giusti perseguitati e uccisi, e non teme il sorriso dei benpensanti, la sufficienza dei dotti, lo scandalo dei pii”, come ripeteva spesso l’umile pastore e profeta di questa chiesa. Per essa – prosegue don Salvatore – don Tonino ha lavorato, ha percorso, instancabile, strade e città, ha affrontato derisioni e accuse, ha suscitato sospetti e timori, ha sofferto in silenzio. Ed ha continuato, con l’umile grembiule del Vangelo a lavare i piedi a Giuseppe, avanzo di galera, a Gennaro l’ubriaco e, idealmente, a tutti gli ultimi della terra.
A questo punto devo dire, carissimo don Salvatore, che quella sua Chiesa del grembiule, ti è entrata fin nelle fibre più intime dell’anima, non foss’altro che per la bellezza poetica con cui l’hai raccontata. Ma devo anche dire che quel dito puntato del nostro grande amico vescovo, che hai scelto come titolo di una tua riflessione dell’aprile 2003, più che ad indicare l’Oltre, come tu dici giustamente, sento che indica anche me. Mi pare di riudirla ancora la sua voce solare, densa di speranza, impastata con i colori caldi dell’utopia, impreziosita con le pennellate di quella verità che rende liberi, di quell’umiltà che fa piccoli nel mondo e grandi nell’eternità. Mi pare di riudirla ancora la sua voce, irrompere nei miei agitati dormiveglia, per dirmi di continuare a sognare spazi di luce senza confini, a tenere, come mi ripeteva più volte, sempre alta la temperatura della mia spiritualità.
Dal posto di luce dove egli ora si trova, riesce a vedere che non sono cresciuto poi tanto in spiritualità, ma sa certamente che continuo a volergli un oceano di bene. “Quando le parole non gli bastavano più” – ricorda don Salvatore – “e i discorsi non riuscivano ad esaurire le multiformi modulazioni del suo cuore, allora si librava sulle note della sua affezionata fisarmonica. In quel momento esplodeva l’entusiamo della sua salentinità, la dimensione familiare del suo carisma episcopale, si rivelavano le radici popolari della sua alta ed altra spiritualità: quella che s’incarna con il quotidiano e s’intreccia con le gioie e le speranze con i dolori e con le angosce degli uomini e delle donne del nostro tempo e della nostra terra”. Terra che don Tonino ha amato per i colori dei suoi tramonti, per la vetustà dei suoi ulivi abbarbicati alla roccia calcarea del nostro Salento, per le azzurre trasparenze dell’abbraccio di due mari a Finibus Terrae, per la sua amata Alessano: umile culla della sua infanzia e dolce rifugio nelle brevi soste di pellegrino infaticabile della Parola di Cristo Crocifisso e Risorto.
Si legge nel capitolo tredicesimo: “Con la fantasia dei suoi giochi linguistici e con la finezza poetica delle sue costruzioni letterarie, che rivelano tra l’altro uno spessore culturale davvero profondo ed enciclopedico, egli chiama tutti e ciascuno alle proprie responsabilità [...] Siamo chiamati – diceva – a porre segni di inversione di marcia ogni volta che il mondo assolutizza se stesso.”
E’ ben nota, ormai oltre gli italici confini, grazie anche ai suoi numerosi libri tradotti in più lingue, la finezza poetica delle sue costruzioni letterarie, il suo inconfondibile vocabolario così fecondo di fioriture metaforiche, di slanci verticali, così denso di radiose immagini evangeliche. Sono ormai famosissime espressioni come: convivialità delle differenze, contempl-attivo, pietre di scarto, eutopia, spina dell’inappagamento, sogni diurni, sistemazione provvisoria, supplemanto d’anima, made in cielo, confitto ma non sconfitto, Chiesa del grembiule, basilica maggiore, ala di riserva, altare scomodo e così via.
“Don Tonino e Giovanni Paolo II costruttori di ponti”: bellissima quest’immagine che accomuna due grandi profeti del nostro tempo, due giganti della cristianità. “E ricorderemo, a somiglianza del papa appena scomparso” – a pagina 63 – “come don Tonino abbia saputo parlare al cuore della gente, dei poveri e dei giovani soprattutto, non solo perché ne aveva imparato il linguaggio, ma anche perché sapeva condividere gioie e dolori di coloro che sono i più provati dalla vita e i più privati dei beni di dignità. Poi fu la lotta col drago, il tumore che divorava il suo corpo e contemporaneamente la lotta ancor più difficile contro la guerra. Volle andare a Sarajevo nel dicembre del ’92 con mons. Bettazzi e altri cinqucento folli sognatori [...] Provai a dissuaderlo, come fecero tanti altri più autorevoli di me: don Salvatore – mi rispose al telefono – anche se con la flebo sento di dover partecipare. Quella gente si sente abbandonata [...] è necessario un segno per riaccendere insieme una lampada di speranza.”
Ho ancora viva negli occhi la sua tenerissima espressione, quando, dopo la Santa Messa che celebrò seduto nella cucina della casa di suo fratello Marcello, domenica mattina 3 gennaio 1993 (ad Alessano c’erano tre dita di neve), poggiandosi al tavolo che pochi minuti prima era diventato altare, mi disse: “Franco, nella palestra di una scuola di Sarajevo, crivellata dall’odio della guerra, dormimmo per terra” – e aggiunse, fissando i miei occhi imperlati di lacrime – “come i pastori che prostratisi Lo adorarono”.
Eravamo rimasti soli. Mi accompagnò alla porta d’ingresso. Le parole che mi rivolse salutandomi, valgono molto di più di quel poco di buono che sono riuscito a fare nella mia vita fatta di incendi improvvisi e di sofferti silenzi, d’infantili stupori e di commozioni sincere.
Fu l’ultima volta che lo vidi! Piangendo e calpestando la neve fresca raggiunsi mia moglie Maria e mia figlia Stefania, che mi aspettavano pazienti in macchina.
Una telefonata dopo le 16 del pomeriggio del 20 aprile dello stesso anno mi informava della fine terrena dell’amato vescovo. Era don Giuseppe Leopizzi. Furono queste le sue telegrafiche parole pronunciate nella nostra lingua dialettale: “Francu, l’imu persu”, e abbassò la cornetta. Alle 8 in punto del 22 aprile partimmo da Sannicola. Con don Salvatore alla guida della sua macchina c’era don Antonio Pisanello, mia moglie ed io. Giungemmo a Molfetta in mattinata e vi restammo fino a notte fonda. Quello che i miei occhi videro, le mie orecchie udirono e la mia mente registrò, vivrà in me per sempre, in tutto il suo doloroso splendore. A quanti con gli occhi di una fede limpida ed umile videro quelle pagine del Vangelo sulla bara del compianto profeta, sfogliate da un alito di vento, non fu difficile immaginare, per un momento, grumi d’assoluto mescolarsi in un unico luminoso poema, col pianto, le preghiere, gli applausi di una moltitudine impressionante di fedeli accorsi in quel pomeriggio avvolto in un profumo di santità. Non erano quelli i funerali di un vescovo, ma l’apoteosi di un santo. Note di giubilo irradiate dall’antica chiesa del Santissimo Salvatore di Alessano, il 21 dicembre del 2007, annunciavano l’avvio del processo di beatificazione di don Tonino Bello. Sono trascorsi ormai sedici anni dalla conclusione della sua radiosa avventura umana. Restano sempre vivi nel cuore di molti quei semi di speranza che egli donò generosamente fino a quando la sua parola, ridotta ormai ad un soffio dal male che lo consumava tra atroci dolori, non si spense.
Egli ci ha raccomandato di scrutare con rinnovato stupore le gemme di nuove primavere e di viverle da protagonisti liberi dal pesante fardello di scelte sbagliate che non ci permettono di sentire sulla pelle dell’anima l’ebbrezza dell’infinito.
Grazie don Salvatore per questo tuo libro: squarcio di speranza negli annebbiati orizzonti del nostro affannoso andare quotidiano. Grazie Marcello e Trifone, fratelli degnissimi di un uomo, di un vescovo e di un profeta che è l’orgoglio delle nostre genti, del nostro sud e di tutti i sud della Terra. La vostra presenza questa sera, insieme all’amico Giancarlo, è una gioia per me e non per me solo. Grazie di vero cuore a don Piero, a don Camillo, agli organizzatori, o meglio, alle organizzatrici Anna e Sofia di questa serata piena di ricordi e di commozione. Un grazie al Sindaco, agli amici, a tutti i presenti. Proprio a tutti, perché a tutti don Tonino voleva un bene da morire. Ma erano sempre gli ultimi a prendere i primi posti nella stanza più luminosa del suo cuore.
Franco VENTURA