Il volto della politica "Tra camaleonti e gattopardi"

È proprio vero che ormai il tempo ci concede rare opportunità per pensare. Ma tra i nostri pensieri ci siamo mai chiesti cos’è davvero la politica come concetto filosofico, etico e giuridico? Fuori dalle vicende elettorali, interessanti per il coinvolgimento di partiti pregiudizialmente contrapposti, una breve riflessione non sarà superflua, se potrà dirimere qualche dubbio in merito. Le tesi sono diverse, antitetiche o complementari, ma prive di risultati concreti e positivi, se, dati gli antefatti, c’è diffidenza prima ancora che sospetto. Vani sono stati i tentativi per chiarirne il fenomeno: la filosofia della politica e la scienza della politica hanno studiato sia i modi d’intendere la filosofia del diritto sia l’ambito dell’attività politica o la stessa natura della dottrina specifica nella sua evoluzione storica. Sul tema si può abbozzare un’analisi con contributi mirati.
“Fingere d’ignorare ciò che si sa benissimo e di sapere ciò che s’ignora; fingere di capire ciò che non si capisce e di non capire ciò che si capisce assai bene; fingere di essere potenti al di là delle proprie forze; avere spesso da nascondere questo gran segreto, che non c’è nessun segreto da nascondere; sembrare profondi quando si è vuoti, darsi bene o male le arie di un personaggio importante, diffondere spie e stipendiare traditori, cercar di nobilitare la povertà dei mezzi con l’importanza dei fini: ecco che cos’è la politica!” (P. Beaumarchais)
“La politica non è solo la scienza del compromesso, ma anche l’arte di maneggiare il letame senza sporcarsi.” (anonimo?) “È interessante far cultura. La stessa, però, soffre se manca la buona politica.” (Giacinto Urso)
Personalmente posso trarre delle conclusioni sic et simpliciter: “La storia è figlia della politica e questa della cultura”. A tal fine si studia la storia e si deve fare storia con gli strumenti della cultura che educhi alla politica sprovveduti e ignoranti, non si sa se maggioranza o minoranza. Così un po’ tutti potrebbero interpretare i processi storico-politici e cancellare infine l’infelice appellativo di “ciucci de Caddhipuli”, riferito ai 21.510 dell’anagrafe. Con tale epiteto etnico erano denominati nel passato i Gallipolini, indubbiamente per traslato. In verità si tratta degli animali da soma che facevano spola da Casarano a Gallipoli, impiegati a tirare carri con botti d’olio convogliato da tutto l’hinterland. Bisognava affrettarsi sino al tramonto, perché il traffico non poteva conoscere sosta in virtù del lavoro incessante dei nostri portuali (i vastasi). Per necessità era parimenti sollecito l’impegno dei contadini che scorgendo dalla discesa di Matino i carri di ritorno, si apprestavano a loro volta al successivo carico passandosi la voce: “ Sta’ rrìvene li ciucci de Caddhipuli!”. A prescindere da ogni polemica e fuor di celia, occorre convenire che la politica resta un affare serio, molto serio! Ma lo sanno davvero tutti? E, tranne pochi benpensanti, quanti sono prigionieri di faziosità e preconcetti da non capire la lezione di certi scandali conclamati e ricorrenti?
Il conflitto Giustizia-Politica non è un pretestuoso stereotipo pubblicitario che si sbandiera ogni tanto fortuitamente, motivo conflittuale tra controparti ideologiche o mediatiche. È solo un fenomeno i cui congegni non si riesce a bloccare ma neppure a chiarire alla cecità di chi non convive con probità d’animo e di princìpi. Allorché il caso esplode e viene alla luce, c’è chi istintivamente plaude, chi tollerante attende con razionale prudenza il terzo grado di giudizio, ma anche chi inevitabilmente recrimina accusando d’ingerenza politica e delegittimando gli stessi giudici, rei di averlo osato aprire, specie se contro i potenti, per grazia divina immuni e intoccabili. Poi, se tutto passa, tutti divengono smemorati. È solo costume italiano essere attratti da nuove chimere per affollare puntualmente il carro del vincitore. Come si fa a correggere un sistema così consunto e inquinato, così ben oleato? Il malcostume dilagante della corruzione, pur costituendo un malvezzo epidemico nella società civile, incuneato nei meccanismi delle consorterie partitiche e degli affari, mai rappresenta un problema né una preoccupazione, non solo per politici di professione o dilettanti della politica. Resta strano se poi sono sempre gli stessi beneficiati a nuotare in superficie sistematicamente impuniti, con la protervia di farla sempre franca. Lo stesso progetto di Platone, che si dedicò alla filosofia, abbandonate le aspirazioni alla vita politica attiva, nacque dalla riflessione sui valori etici e dalla consapevolezza della dimensione politica dell’uomo alla ricerca dello Stato ideale, ancorché utopico. Mirava a influenzare la politica con la filosofia per un governo di filosofi, amanti della saggezza e della verità, le sole virtù capaci di offrire una svolta positiva all’azione del politico. Aristotele intervenne con ulteriori approfondimenti su etica e politica, coniugando la felicità personale con l’interesse generale dell’uomo come zòon politikòn, membro della polis, l’archetipo del consesso umano.
La politica, dunque, è un dovere primario più che diritto, è un obbligo, un’attrazione fatale, la prima aspirazione della giovinezza. Ma guai se diviene vanità, come sosteneva M. Weber, maestro per tanti liberali improvvisati e opportunisti (cfr. La politica come professione, 1919).
La vanità è ormai un difetto generalizzato nella vita associativa e rappresentativa, soprattutto nella convivenza pubblica e nella politica. L’ambizioso disegno di porre in risalto la propria persona induce l’uomo politico nella fortissima tentazione di cadere nei due più frequenti errori: “mancanza di una causa giustificatrice e mancanza di responsabilità”. Il politico, in veste di demagogo, costretto a contare sull’efficacia più che sulla persuasione, rischia continuamente non tanto di divenire un istrione quanto di sottovalutare, per effetto del suo operare, la responsabilità quale categoria etica e di preoccuparsi solo dell’impressione che è capace di suscitare. Per mancanza di una vera causa egli rischia di confondere il prestigio apparente del potere per il potere reale e di fruire del potere unicamente per amore irrazionale della potenza, senza possedere responsabilità né scopi. Alla resa dei conti, comunque, lo premunisce l’immunità garantita ex lege dallo Stato.
Il politico della potenza, glorificato da un culto professato anche nel nostro tempo, vittima dell’immagine e dell’apparire oltre che del dio denaro, può esercitare una forte influenza solo motivata da finalità futili ed effimere, ma opera di fatto nel vuoto dell’assurdo, pur disponendo di forti mezzi finanziari, tuttavia inutili nella dialettica politica che si avvale del confronto di idee e di programmi. È noto quale impotenza si celi dietro tale comportamento supponente e borioso ma del tutto inconsistente del falso politico. Tutta la storia, costruita da politici, dimostra che il risultato finale dell’azione politica non può rapportarsi col suo valore primario.
Per tale ragione l’agire del politico deve puntare su un fine preciso: servire a una causa concreta e nobile, capace di una sua intima consistenza. Ma quale debba essere la causa, per i cui fini il politico aspira al potere per poi servirsene, è davvero una questione di fede. L’eletto, figlio della meritocrazia o della plutocrazia, non deve mai servire, in democrazia, se stesso o una corporazione, può servire la nazione o l’umanità, la propria città o comunità, può operare per finalità sociali, etiche o culturali, mondane o religiose, inevitabilmente sostenuto da una ferma fede nel progresso e nella civiltà. Sebbene talora pretenda di mettersi al servizio di una “idea”, per soddisfare i fini esteriori della vita quotidiana, deve in ogni modo avere una fede, altrimenti la maledizione della nullità del suo operato ricadrà sui suoi successi personali, conseguiti a scapito degli interessi generali. Senza una fede autentica, mai riserbata a se stesso, il politico conosce nella vergogna, col fallimento di un impegno vano o ingannevole, il suo funerale come persona e come cittadino.
Occorre restituire dignità e nobiltà alla politica, vissuta come servizio verso gli altri, al di fuori di supine appartenenze a gruppi di potere legati da interessi particolari di caste, clan e famiglie. Ha ragione Weber a sostenere che l’uomo politico deve possedere tre doti: passione, senso di responsabilità, lungimiranza. Se c’è una causa da perseguire, non può mancare la responsabilità, che si acquisisce e si matura solo nel distacco dalle cose, ossia col disinteresse personale.
La politica rappresenta tutto ciò che si riferisce alla città (polis), che ha a che fare con la comunità e coinvolge l’universalità dei cittadini, là dove il sociale coincide immediatamente col politico. È la tipica dottrina della cultura classica. In età moderna, invece, non del tutto superata la teoria machiavellica (della volpe e del leone, del fine e dei mezzi), lo stato di natura della visione aristotelica (l’animale politico) si traduce, come tra lupi, in una selvaggia contesa di tutti contro tutti (cfr. Hobbes). Nasce così lo Stato, sociale prima che etico, il quale non è un moloch astratto, temuto da anarchici o da egoisti e trasgressori opulenti, ma il risultato della ragione che suggerisce l’opportunità di stipulare un contratto sociale unanimemente condiviso quale rappresentatività e garanzia totale nel rispetto delle prerogative di ciascuno, dipendente pubblico o privato. È lo Stato quindi che, assicurata la pacifica convivenza nell’ordine e nel benessere, ha il compito di mediare, dirigere e organizzare il consenso nei rapporti della società civile, anche dell’individuo, del mercato, dell’interesse privato.
La concezione dello Stato contemporaneo, infine, recupera grosso modo il modello classico, passando attraverso la fase centrale dello Stato moderno dell’autonomia del politico e della superiorità della politica rispetto alla morale. La politica, tuttavia, non è solo ciò che esce dalle sedi ufficiali, ma pure ciò che vi entra: da un lato decreti e leggi, dall’altro voti, proposte, progetti, pressioni, interessi, bisogni, aspirazioni, ideali, valori. Oggi si tratta di un fenomeno più diffuso, in quanto soggetto ad una novità: la democratizzazione come massificazione. La dimensione verticale (potere politico al di sopra della società) deve essere pertanto integrata da una orizzontale, in cui la politica, nel e tra il sociale, possa esprimere decisioni eticamente condivisibili e cogenti nei confronti di tutti i cittadini, eguali nei diritti e nei doveri di fronte allo Stato (cfr. Hegel e Bobbio).
La politica, peraltro, non può neppure perseguire né subire, come risultato finale, grottesche operazioni o taciti compromessi di palazzo, eludendo le reali aspettative della base e del corpo elettorale. Non è un mestiere né un’opportunità da sfruttare; è solo un dovere civico, esercitato col cervello e con dedizione dal politico appassionato, deputato ad amministrare (minister = servitore), ossia ad essere al servizio dell’interesse pubblico con altruismo, senza imperio né arbitrio. Per far questo occorre possedere il senso di cittadinanza con intelligenza e probità, perché solo così, senza calcoli interessati e fini reconditi, si può promuovere una pur minima progettualità onde risolvere, non tanto macroscopici problemi strutturali, quanto quelli minimi ed essenziali da vivere nel quotidiano, sempre prioritari, ma propedeutici per un ulteriore salto di qualità necessario a costruire la vita futura dell’intera collettività.
Nell’attività politica non ci può essere dunque spazio per opportunisti insipienti o per servi sciocchi, avventurieri o acrobati, subdoli come camaleonti e scaltri come gattopardi. Chi intende impegnarsi in politica non può non operare secondo giustizia e libertà, mirando unicamente ad un solo obiettivo. Chi accetta quest’onere e possiede doti, qualità e peculiari prerogative, ha solo l’obbligo di perseguire il bene comune con trasparenza e competenza, tenacia e rettitudine, evitando mortificanti e denigratori imbarbarimenti della civile convivenza, che, deteriorata fino al qualunquismo o alla transumanza trasversale, rischia di essere orfana di dialogo e tolleranza, essenziali per una dialettica civile e democratica.
La politica non può neppure scadere nella polemica gratuita, miserevole appannaggio di fantasmi resuscitati e riciclati a far da saltimbanchi qua e là nella variegata geografia partitica. Sono gli stessi qui e altrove, da padre in figlio costantemente presenti nell’agone politico a distribuirsi la “torta”, abilmente supportati dalle medesime famiglie di grandi elettori, che sin dall’era borbonica sono tuttora a galla e sulla breccia, senza essere mai sazi di esercitare il proficuo mestiere di avidi gregari, sempre pronti a sfruttare, con turpe spudoratezza, il successo di nuove fortune in sorte ai soliti magnati e potenti, signori di tutto, del cielo e della terra.

Gino Schirosi